Si fa fatica, sempre di più, a cercare di ragionare pacatamente su gesti, decisioni, scelte particolarmente delicate. E’ il caso del doppio bus preannunciato dal sindaco di Borgaro.
Se un sito come questo ospita decine e decine di lettere di dissenso ragionato senza un solo insulto rivolto al sindaco, e una intelligente giornalista della Rai ospita uno dei promotori di questa piccola campagna civile, i partecipanti alla discussione vengono qualificati come inadeguati, “buonisti”, e simili fandonie prima ancora che parlino dalla solita email franca tiratrice. Né manca chi, senza discutere le proposte e i ragionamenti presenti in quelle lettere, squalifica sotto le etichette di “moralismo” e “buonismo” persone prima ancora di ascoltarle, e di “astrattezza” la Carta costituzionale stessa, ricordata al sindaco in questione da una esperta come Francesca Rigotti.
Il record della velocità nello squalificare chi si azzarda a proporre di ragionarci sopra lo tocca Gramellini, sulla “stampa” il 24 ottobre
I precedenti: un titolo di cui si è ammesso il carattere “razzista”
“La stampa” per la verità su questri temi dovrebbe cercare di essere un po’ cauta. Qualcuno ricorda ancora cosa scriveva il raffinato quotidiano torinese l’11 dicembre 2011, giorno del corteo finito col rogo del campo rom della Continassa: “Nel mirino l’area della Continassa, dove vivono una cinquantina di rom. «Sappiamo dove si ritrovano. La situazione è insostenibile»”. Il titolo dell’articolo, come scrivemmo allora,
era davvero sbilanciato: “Mette in fuga i due rom che violentano la sorella”. Eppure l’autore, Massimiliano Peggio, avrebbe potuto essere meno perentorio, visto che delle indagini dei Carabinieri scriveva, all’interno dell’articolo: “I militari adesso stanno cercando di ricostruire la vicenda con grande cautela”. Cautela. Chiedemmo: “Perché la prudenza, che è virtù degli investigatori, non viene praticata da chi maneggia dichiarazioni così pesanti? Non bastano tanti precedenti orribili e dolorosi a consigliare di pensarci prima?”
Il giorno dopo, e dopo il rogo, si seppe che della violenza sessuale dei titoli cubitali della Stampa non era vero nulla. Il caporedattore Guido Tiberga intervenne con un breve pezzo, “Il titolo sbagliato”, in cui ammetteva la gravità dell’errore e anzi parlava di “razzismo” (del proprio giornale, intendeva Tiberga).
“Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità, né sui fatti né soprattutto sulla provenienza etnica degli «stupratori». Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi». Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista. Un titolo di cui oggi, a verità emersa, vogliamo chiedere scusa. Ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi.”
In molti ricordiamo con qualche sgomento queste dichiarazioni di Tiberga, che vengono riprese da Paola Andrisani nell’ultimo rapporto di “Cronache di ordinario razzismo”, alle pp.123-127 da una parte perché l’ammissione di “razzismo” da parte di Tiberga non fu imitata da nessun altro giornale, dall’altra perché le scuse Tiberga le rivolgeva a tutti tranne che alle vittime del pogrom, i rom della Continassa cui erano stati messi a fuoco gli alloggi – e che, subito dopo, vennero esplusi dal campo. Ci sembrava, e ci sembra tuttora, che la meritoria ammissione di Tiberga e della “Stampa” in fondo finisse per confermare la deumanizzazione delle vittime di quel bel gesto. Con pazienza, si conclude, in questi casi: non hanno chiesto scusa ai rom, ma hanno definito “razzista” un proprio titolo. Servirà, in futuro. Non è stato così.
Biondo era e bello
Il 28 settembre 2014 “La Stampa” è stata tra le protagoniste di un altro allarme falso, che ha rischiato di portare a un altro rogo. Anche stavolta, alla cautela degli inquirenti non è corrisposta un’analoga cautela della stampa, e della “Stampa” in particolare.
Ecco il titolo dell’articolo a firma Nadia Bergamini, Gianni Giacomini del 28 settembre, privo di qualsiasi forma di cautela, nonostante tutti i precedenti, e nonostante le scuse esplicite:
Borgaro sotto choc, un uomo tenta di rapire due bimbi di 2 anni sul passeggino
E questo è l’inizio:
“Due bimbi di 2 anni hanno rischiato di essere rapiti, questo pomeriggio a Borgaro, durante la festa patronale. Uno dei due piccoli era sul passeggino, quando un uomo ha cercato di prenderlo in braccio e fuggire. Solo la prontezza del papà di questo bambino – in quell’istante distratto dalla confusione dei festeggiamenti – ha evitato il peggio: «Gli sono corso incontro e l’ho colpito con un pugno». Tutto è avvenuto sotto gli occhi di alcuni testimoni, e la notizia si è sparsa rapidamente. Poco prima lo stesso uomo aveva cercato di prendere in braccio un altro bimbo che si è subito messo a piangere.”
Qui i due cronisti non solo prendono per buona la versione del padre mitomane, non solo eludono i richiami alla cautela, che pure ci sono stati, come si saprà due giorni dopo, ma si inventano “alcuni testimoni” (credibili quanto quelli che avevano visto scappare “gli slavi” la notte di Novi Ligure) , e reduplicano fantasiosamente il tentativo di ratto. Tutto fanno, insomma, tranne che valutare la qualità delle voci, del tutto coincidenti con quanto si sa da anni sulla leggenda metropolitan dei rom che rubano i bambini.
Il giorno dopo, Nadia Bergamini firma il suo pezzo da sola:
“Volevano rapire un bambino di 2 anni
Un uomo e una donna cercano di portarlo via dal passeggino durante la festa patronale di Borgaro
Enrico – il nome è di fantasia – è un bellissimo bimbo biondo di appena due anni e mezzo di Borgaro, che ieri pomeriggio ha rischiato di essere strappato ai suoi genitori. Strappato e portato chissà dove, come tanti altri bimbi che scompaiono e non si trovano più. (……) Secondo gli inquirenti il tentativo di rapimento sarebbe stato pianificato. I due malviventi, infatti, si sarebbero appostati, proprio in via Santa Cristina nell’unico tratto aperto al transito delle auto per avere una sicura via di fuga e alle 17, ora in cui solitamente si registra il maggior flusso di folla.”
Qui Bergamini scrive qualcosa di cui non sembra che un redattore le abbia chiesto conto: “Secondo gli inquirenti il tentativo di rapimento sarebbe stato pianificato.” E chi glielo ha detto, a Bergamini? In quelle ore, sembra proprio che gli inquirenti si siano comportati in maniera seria, visionando filmati da cui risultava la totale invenzione dell’evento: possibile che abbiano detto a una cronista: “il tentativo di rapimento è stato pianificato”? sarebbe bello saperlo. La logica tenderebbe a escluderlo, ma tutto è possibile.
Passa un giorno ancora, e veniamo a sapere ( da Gianni Giacomino e Nadia Bergamini):
“Bimbo rapito, il papà ha inventato tutto
La confessione: “Si era perso alla festa, ho avuto paura che mi togliessero la patria potestà”. Aveva anche “riconosciuto” un rom nelle foto segnaletiche: ora è accusato anche di calunnia”
Ci aspetteremmo, se non delle scuse per averci fornito elementi immaginari, almeno qualche cautelosa ammissione di esserci caduti. Non è così: evidentemente i cronisti sono convinti di non avere contribuito alla costruzione sociale del mostro, che a loro avviso percorre altre vie; infatti, scrivono Giacomino e Bergamini: “E così sui social network si è scatenata la caccia al mostro, con dei commenti a sfondo razziale davvero spietati. Con qualcuno che tentava di arginare le posizioni più esasperate, anche ricordando quello che successe due anni fa”.
Qualcuno tentava di arginare le posizioni più esasperate, ma questo non era bastato per essere più cauti nei titoli e nei servizi. La caccia al mostro NON c’entra niente con il titolo (anche) della “Stampa”, ma è confinata ai balordi che fanno “commenti a sfondo razziale davvero spietati”. Giacomini e Bergamini (in questo caso, in altri casi altri cronisti o commentatori) si mostrano preoccupati dei commenti eccessivi; non gli interessa quanto possano avere a che fare con i loro titoli, con l’accreditamento (in cui non sono caduti gli investigatori) di testimoni fasulli, con la duplicazione del rapimento, con le omissioni.
Le omissioni: le indicano senza volerlo Giacomini e Bergamini, quando ricordano che “qualcuno … tentava di arginare le posizioni più esasperate, anche ricordando quello che successe due anni fa”. Tentava, non oggi, ma al passato: e come mai i due cronisti ne tengono conto solo oggi, e non due giorni fa e ieri? Due anni fa (tre per l’esattezza) il redattore della “Stampa” ammise una mancanza di cautela che aveva portato, diceva lui, a “un titolo razzista”. Era invece innocente il titolo di due giorni prima? Solo perché non c’era scritto “rom”, ma c’era tutto il resto degli ingredienti della leggenda sugli zingari che rubano i bambini? E’ questo, che si è imparato dal mea culpa di Tiberga di tre anni fa? Come se il razzismo fosse un virus, che colpisce inaspettato le intenzioni, le anime delle persone, e non un fenomeno sociale che molto deve all’effetto di una serie combinata di discorsi, più e meno accreditati. E alle campagne di panico morale, cui sarebbe bene non accodarsi anche quando non richiamano nei titoli i presunti (perchè leggendari) autori.
Lo stesso giorno, il terzo, su “Repubblica” ci sono informazioni minime ma interessanti ;
veniamo infatti a sapere che “Il magistrato ha lodato l’operato dei carabinieri “che in sole 24 ore sono arrivati alla verità” e ha avvertito: “Serve calma, cautela e professionalità nel dare la notizia altrimenti si rischia un effetto boomerang”. ”La professionalità nel dare la notizia”, invocata dal magistrato, è una frase che non viene riportata sulla “Stampa”. Chissà come mai è stata ritenuta irrilevante, meno rilevante dei capelli biondi del bambino mai rapito.
Sollevato, ci dice “Repubblica”, anche il sindaco di Borgaro Claudio Gambino: “Il mio primo pensiero – dice – è quello di ringraziare i miei concittadini. C’è stato davvero il forte rischio che sull’onda dell’isteria collettiva potessero svilupparsi degenerazioni violente come successo alla Continassa due anni fa. Invece gli abitanti di Borgaro hanno saputo tenere i nervi saldi.”
Tutti contenti e pacificati. Ma stavolta non si chiede scusa, né tanto meno la si chiede ai rom sospettati, additati, accusati, “visti rapire”. Non c’è stato nessun tentativo di rapimento, dice con sollievo il sindaco. Ma c’è stata una pratica che conduceva alla psicosi collettiva, un cedimento al gusto del panico. Non si può chiedere più cautela a chi ha contribuito a cercare di rivitalizzare la leggenda metropolitana dello zingaro rapitore di bambini biondi? “Un genio”, assicurano Giacomino e Bergamini del padre che si è inventato tutto. E loro? Quanto si sono attenuti, loro, rispetto alle informazioni degli inquirenti, alla cautela che la tipologia del presunto fattaccio avrebbe dovuto imporre?
Che novità: vogliono Barabba libero!
Ritroviamo la medesima giornalista della “Stampa”, pochi giorni fa, dopo la dichiarazione del sindaco di Borgaro protagonista di un cosiddetto sondaggio, dal titolo
Sondaggio: Bus separati per i rom: siete d’accordo con la decisione del comune di Borgaro?
Prevedibile il plebiscito: la stragrande maggioranza di chi risponde è per il sì. Come nella scelta tra Cristo e Barabba (a proposito: chi ha vinto, quella volta?), o per la morte di Socrate, o per assistere al rogo di Giordano Bruno, si costituiscono velocemente resse e maggioranze su poche parole, non c’è bisogno di informarsi, si clicca in un attimo e senza esporsi a quei seccatori che ci vogliono ragionare sopra: anzi, li si mette a tacere, con un click. “Buonisti” e pusillanimi, se li tengano loro in casa, quei ladruncoli (e rapitori di bambini soprattutto biondi, come quello descritto da Bergamini tre settimane fa).
Una trovata linguistica: l’apartheid non razziale ma anti-illegale
E’ in queste ore che si muove Gramellini con un pezzo di cui è da condividere la pointe finale, sia per il suo senso civico che per le molte e varie implicazioni: “uno Stato dovrebbe provare a riunire le persone: in nome della legge. Smettendo di ignorare chi non la rispetta”; ma una conclusione così sensata convive con varie affermazioni preoccupanti.
Scrive Gramellini: “Di fatto la prima (linea n.69, ndr) servirà i cittadini integrati e la seconda i nomadi. Un apartheid non legato a pregiudizi razziali ma a comportamenti illegali.” Lasciamo stare l’opposizione integrati-nomadi, su cui sarà bene però riflettere altrove. Lasciamo stare il fatto che si chiamano “nomadi” cittadini stanziali, secondo un presunto eufemismo che da un ventennio viene indicato come uno stigma evitabile. E lasciamo stare il fatto che se volessimo discriminare nell’uso dei bus individui che vivono nell’illegalità meglio sarebbe istituire un servizio di taxi per tutti. Ma chi ha detto a Gramellini che legare l’apartheid (da lui ammesso) a “comportamenti illegali” attribuiti a tutt’intera una popolazione, qui definita nomade, possa esentare da “pregiudizi razziali”? Il problema del pregiudizio razziale, in questi casi, non riguarda tanto le intenzioni di chi decide (oltretutto, dal Ser Ciappelletto di Boccaccio in qua dovremmo avere imparato che le vicende e le sorti dell’anima non ci sono trasparenti), quanto gli effetti di ciò che viene deciso, che oltretutto hanno il vantaggio di essere analizzabili; per cui le intenzioni e le motivazioni spesso sono chiamate in causa per distrarre dagli effetti. Può darsi che ci sia chi rozzamente attribuisca al sindaco di Borgaro, e a chi è d’accordo con lui, come Gramellini dichiara di essere, pregiudizi razziali. Ma dialettizzarsi con queste semplificazioni è una mossa diversiva. Il punto è un altro, e lo ha esposto, mi pare, nitidamente Anna Scacchi in una delle lettere spedite al sindaco di Borgaro e pubblicate su Cronache: vedi qui, il razzismo di una legge o scelta o delibera non si valuta nelle intenzioni ma negli effetti. Se una legge apparentemente neutrale, o cosiddetta colorblind, ha un impatto negativo su un gruppo etnico, allora quella legge ha un contenuto razzista di cui tenere conto.
E’ questa, la preoccupazione di molte persone, come scriveva sempre Anna Scacchi:
La segregazione sempre acuisce i conflitti, radicalizza le differenze e fa aumentare gli episodi di razzismo, proprio ciò che mi pare lei si augura di sconfiggere.
Gramellini si guarda bene dal confrontarsi con queste posizioni, e insiste invece sulle motivazioni, che è meglio non demonizzare: “mi guardo bene dal demonizzarne le motivazioni”. Non si tratta di un ragionamento peregrino: anzi, è del tutto prevedibile; cioè banale, come ci ha insegnato a riconoscere la migliore epistemologa del secolo appena finito. Il punto mi pare proprio questo. Che ce ne facciamo di una argomentazione banale, di un riflesso prevedibile, per affrontare una discussione delicata, dai complessi effetti pratici?
Capita sempre più spesso che chi con la massima urbanità muove osservazioni, domande e dubbi su scelte delicate, venga richiamato a non demonizzare le persone che quelle scelte fanno, o addirittura, come qui fa Gramellini, le loro motivazioni. Se c’è chi si guarda dal demonizzare le motivazioni, segno è che per lui trattasi di tentazione diffusa e pericolosa. Ma così si preferisce ipotizzare avversari e interlocutori banali, e si gioca a dividere il mondo tra chi demonizza e chi no: cosa che sarebbe ridicola, se ci fosse da ridere.
Responsabilità giuridiche attribuite a una costruzione simbolica
E’ però con l’affermazione successiva, che Gramellini sembra non volersi soffermare a rispettare, se non le leggi (come ipotizza chi lo ha denunciato per istigazione all’odio razziale: vedi qui)
per lo meno il buon senso e la plausibilità. Ecco cosa scrive il corsivista del quotidiano di Torino:
“Le leggi valgono per tutti ed è inaccettabile che la comunità rom si arroghi il diritto di violarle con sistematicità, adducendo il rispetto di tradizioni che giustificano il furto e l’accattonaggio infantile.”
Qui si succedono una figura retorica subdola e un’affermazione non provata, per attaccare una popolazione intera. Si personalizza una presunta “comunità rom”, attribuendole dichiarazioni e pretese odiose: nientemeno che di arrogarsi esplicitamente il diritto di violare sistematicamente le leggi, adducendo (sempre esplicitamente) tradizioni che giustificano il furto, etc. Altro che demonizzazione! Ma da quando in qua si accetta che si dica che un insieme costruito mentalmente e personalizzato si arroga dei diritti? E quand’è che Gramellini ha assistito a questa presa di posizione della “comunità Rom”? Trattandosi di un’accusa particolarmente grave, la può provare? Può portare qualcuno sul banco dei testimoni, che non sia un’attribuzione di senso comune, cioè di livello assai basso e perciò condivisibile dai più per la sua banalità (evviva Barabba!), ma non provabile giuridicamente?
E’ su questa base, che Gramellini, pur consapevole del fatto che “la soluzione adottata sembra l’ennesima pezza appoggiata sopra la ferita: più per non vederla che per guarirla davvero”, si accoda alla tendenza a giudicare gli individui secondo elementi ascrittivi, tarati da immobilità fatale e gravati da vizi civili insuperabili: caratteri che renderebbero vana quella responsabilità di unire le persone da parte dello Stato, riconosciuta poco dopo.
Da anni, vediamo giornalisti rendersi responsabili di “poca professionalità nel dare le notizie”, come direbbe il magistrato piemontese. Tanti, spesso e con effetti devastanti sulla vita civile di questo sfortunato paese. Ma non ci salta in mente di scrivere che “la comunità dei giornalisti si arroga il diritto di violare con sistematicità il buon senso e i suoi doveri professionali, adducendo il rispetto di tradizioni che giustificano la stigmatizzazione e la discriminazione su basi razziali”. Non stiamo qui a raccontare favole. Ci guida la convinzione che se noi ci atteniamo al rispetto della logica e dell’umanità altrui, anche chi si è sbagliato prima o poi se ne accorgerà. Nonostante le debolezze, le incapacità, gli opportunismi, le pusillanimità che intridono – a quanto pare – la società in cui viviamo.-