Sono trascorsi 9 giorni da quando è stata avviata la procedura di “emersione dei rapporti di lavoro al nero” ai sensi dell’art. 103 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, recante “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, per “garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19 e favorire l’emersione dei rapporti di lavoro irregolari” (noi ne avevamo già parlato qui e qui).
Una parte della stampa mainstream ha già cominciato a fare bilanci azzardati e a parlare di “flop” con grandi titoli strillati (ad esempio si veda qui).
Il dato certo è che le domande già inviate sono molto poche, con un andamento ben al di sotto delle aspettative e della previsione finale di oltre 200 mila domande (che in un primo momento erano addirittura stimate a 600mila!): poco più di 10 mila domande nei primi 6 giorni.
La tentazione della strumentalizzazione politica da parte di alcuni partiti all’opposizione è molto forte, al punto di voler far passare l’idea che questi piccoli numeri dimostrino come il provvedimento voluto dal Governo sia “inutile”. E da questo, al passaggio successivo di voler imputare al varo del provvedimento anche l’aumento degli sbarchi, il passo è molto breve. Basta guardare i titoli di questa mattina in rassegna stampa.
Ma quali sono le vere motivazioni che si nascondono dietro questa partenza a rilento?
Innanzitutto, è stata mal gestita proprio la partenza: un decreto attuativo pubblicato nottetempo il 29 maggio, con l’apertura delle domande prevista per il primo giugno, senza dare il tempo necessario agli sportelli di supporto ai migranti (pochissimi in verità quelli aperti al pubblico, ndr) e ai patronati di studiare il decreto e capire come muoversi.
C’è anche da aggiungere il fatto che stiamo parlando di un Decreto Legge la cui conversione in legge è ancora all’esame del Parlamento: ovvero la procedura è iniziata quando almeno in teoria il testo del decreto potrebbe essere modificato dal Parlamento (come per altro ci auguriamo).
C’è grande confusione e incertezza, questo è un altro dato inequivocabile. E questo malgrado gli sforzi di alcune associazioni di stilare delle “guide” all’interpretazione corretta del decreto nonché delle successive circolari (vedi Asgi e Grei250).
E’ un una “regolarizzazione” che, lo abbiamo già ribadito, assegna molto potere ai datori di lavoro, ponendo così in una posizione di maggior ricatto i lavoratori. E, come era prevedibile, cominciano a venir fuori diverse denunce riguardo la formazione di organizzazioni malavitose finalizzate a fornire documentazioni e testimonianze false, con tanto di tariffe a carico dei migranti (le cifre si aggirano fra i 3000 e gli 8000 euro), per simulare l’instaurazione di rapporti di lavoro inesistenti, soprattutto nell’ambito delle collaborazioni domestiche, ma non solo (si vedano, a titolo d’esempio, in differenti zone d’Italia: qui a Latina oppure qui nel materano).
La durata abituale dei rapporti di lavoro nei settori interessati dal provvedimento è molto al di sotto di quella necessaria per esaminare le pratiche di regolarizzazione, e i costi previsti non giustificano l’interesse dei datori di lavoro. Questo è particolarmente vero per i braccianti in agricoltura. Tutte cose già ampiamente avvenute e documentate in passato. Ma sembra che la lunga storia delle “sanatorie” in Italia non ci abbia insegnato nulla.
Inoltre, l’impianto del provvedimento delimita in maniera troppo restrittiva il perimetro delle regolarizzazioni a tre macro-settori: agricoltura, lavoro domestico e assistenza familiare. Le esclusioni di altri importanti settori, che pure registrano una rilevante quota di lavoro sommerso e di sfruttamento (eclatante a tale proposito è il recentissimo caso di Uber Italy, commissariata per “caporalato”), come ad esempio l’edilizia e il commercio, sono penalizzanti ed escludono una importante parte di immigrati senza documenti, i quali dovrebbero, in teoria, cercare una nuova occupazione nei settori di riferimento del decreto per poter aspirare alla regolarizzazione (pur lavorando, e magari al nero).
Cosi come restano restrittivi e, a volte, troppo stringenti, gli altri requisiti richiesti. Ad esempio la richiesta dell’esibizione di un passaporto in corso di validità (o attestazione consolare), le prove di presenza in Italia e anche il tetto di reddito imposto al datore di lavoro.
Poi ci sono numerose incertezze interpretative, in particolare quella relativa al possesso di un regolare permesso di soggiorno nel periodo precedente al 31 ottobre 2019 per la procedura riservata alle domande relative al comma 2. Su questo punto, lo stesso help desk del Ministero pare abbia fornito risposte contrastanti. E ancora non è stato pubblicato il decreto interministeriale che deve stabilire l’entità delle sanzioni per gli importi pregressi di contributi e prestazioni salariali per comma 1 relativo all’emersione.
Resta poi tutto un capitolo aperto sui richiedenti asilo. Si attendeva anche qui una circolare che dissipasse i principali dubbi, ma ancora non si sa nulla. Circolano in rete numerose prassi, diffuse e contrastanti fra loro, delle stesse Questure, che chiederebbero ai richiedenti asilo di dover rinunciare a priori alla procedura di asilo incardinata, senza sapere poi quale esito potrebbe avere l’alternativa procedura di regolarizzazione. E stiamo parlando di un diritto soggettivo, di uno status giuridico al quale non si dovrebbe rinunciare se non con un’alternativa certa in mano. Altrimenti, questa regolarizzazione andrebbe a peggiorare ulteriormente la loro già vulnerabile condizione.
In realtà, l’art. 103 del decreto Rilancio ha perso di vista il suo obiettivo iniziale proclamato nel suo titolo: ovvero quello di intervenire tempestivamente sull’emergenza Covid in corso e di tentare di regolarizzare la posizione di migliaia di invisibili che altrimenti non potrebbero essere monitorati, e nel caso avere accesso alle cure necessarie.
Questo fulcro fondamentale si è perso per strada, privilegiando una logica “funzionale” al sistema: non si è più pensato alle persone titolari di diritti e di tutele in quanto tali, ma piuttosto a cosa potesse essere “utile” ad un paese in carenza di braccia e di manodopera.
Continuando di questo passo, si potrebbe avere un effetto contrario a quello inizialmente espresso: gli invisibili, saranno davvero meno invisibili?