“Ecco gli ultimi zingari predoni. Si fa strada il business del tombino”. Il titolo è del quotidiano Il Tempo. Ed è un titolo da ricordare, per l’esplicito contrasto con le linee guida dettate dalla Carta di Roma, il protocollo deontologico per una corretta informazione sui temi dell’immigrazione, siglato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana nel giugno del 2008.
“Zingari predoni”, titola il giornalista Giuseppe Grifeo. Con due parole, riesce a proporre una stigmatizzazione ben nota e potente dei rom.
Nell’articolo si parla di “sacco dei tombini”: “la stima più che attendibile” – scrive il giornalista, ma per affermarlo sarebbe utile sapere sulla base di quali dati è stata realizzata – “è che nella Capitale ne manchino all’appello almeno 1.650. Un business – prosegue l’articolo – saldamente in mano ai nomadi che li smontano per rivendere la ghisa”. Secondo il quotidiano, “i rom non si fermano qui. Il loro giro d’affari si allarga a tutti i materiali ferrosi in generale, dalle catenelle delle altalene nei parchi ai supporti dei segnali stradali. L’effetto è devastante: le strade sono diventate un vero e proprio terreno minato”.
Il Tempo parla di attività illegittime, che in quanto tali devono essere perseguite.
Ma perché farlo usando toni e parole che cavalcano un pregiudizio, che qui ne esce rafforzato?
Il giornalista parla inoltre della “grande processione quotidiana di nomadi che intorno le 9 del mattino passano sul viadotto della Magliana spingendo carrelli strapieni del metallo depredato” e la definisce “una scena desolante che non dà l’idea di essere in una capitale europea”.
Ci chiediamo se i cosiddetti ‘campi nomadi’ autorizzati, veri e propri spazi di segregazione sorvegliati, diano invece l’idea di una capitale europea. Se sia degno di una capitale europea avere delle aree recintate dove far confluire delle persone solo in base al fatto che appartengono a una minoranza, confinandole ai margini della città e della società.
Ci sembra inoltre doveroso domandarsi se sia degno di una capitale europea il fatto che ad alcuni cittadini venga precluso l’accesso al mercato del lavoro in nome di stigmi e dal pregiudizi prodotti e reiterati anche da articoli come questo de Il Tempo. E ci chiediamo anche quanto questi pregiudizi, e la conseguente esclusione dai percorsi lavorativi ufficiali, possano contribuire allo sviluppo di un’economia sommersa, ivi comprese pratiche illegittime.
Il giornalista osserva inoltre che questi furti si concentrano nelle aree periferiche della città “perché qui si ruba con maggiore sicurezza”, non certo nel I municipio o in “aree troppo centrali”. Ancora una volta, una tesi “si ruba in periferia più facilmente che in centro” è avanzata senza fare riferimento a fonti o dati che possano supportarla.
L’articolo si concentra sui furti di materiale ferroso, ma parla anche di altri problemi, forse in maniera inconsapevole visto che non vengono approfonditi. Tra questi, la divisione che attraversa molte delle nostre città tra centro e periferia, esplicitata dal giornalista nella frase, breve ma incisiva, “i furti di ghisa diminuiscono notevolmente nel I e II Municipio, aree troppo centrali”, che si contrappone in modo forte con la già citata “Le zone più colpite sono quelle periferiche [..] perché qui si ruba con maggiore sicurezza”. La situazione tracciata da queste due affermazioni non ci parla solo del numero di furti di materiali ferrosi nei vari municipi della Capitale: se si allarga l’obiettivo, si vede la divisione di una città in aree lontane dagli occhi del turista e dei politici e abbandonate a loro stesse, e spazi invece centrali gestiti con una maggiore attenzione.
Questa divisione, che grava pesantemente sulla vita delle persone e sui servizi di cui possono beneficiare, è invece degna di una capitale europea?
Infine, utilizzando una pratica ormai piuttosto diffusa, ossia quella di cercare il consenso del lettore ricollegando l’evento o il fenomeno di cui si parla all’impatto che può avere sulle tasche dei contribuenti, Il Tempo propone alcuni calcoli: “Se si pensa che all’amministrazione comunale rimettere un solo tombino nuovo costa l’equivalente di circa 350 euro, si arriva a una cifra che sfiora i 580.000 euro per ricollocarli. A condizione che si riesca a scongiurare altri furti, altrimenti questa emorragia di denaro continuerà. Ai nomadi il guadagno per tombino rubato, frutta dai 40 ai 100 euro, il giro d’affari quindi si aggira sui 115.000 euro (conteggiando i tombini oggi mancanti)”.
Anche in questo caso, non viene fornita la fonte dei dati cui si fa riferimento. Crediamo utile associare alla narrazione di un fatto anche un’analisi, seppur breve, del contesto.
Perché persone appartenenti a una minoranza, ormai stabilmente presenti sul territorio, vengono allontanate dal centro della città, confinate nei campi, costrette in un percorso assistenziale che non promuove la loro autonomia individuale? Quanto la scelta di privilegiare le politiche dei campi contribuisce a promuovere efficaci percorsi di inserimento socio-lavorativo e pratiche di condivisione positiva della quotidianità e degli spazi?
Il dossier Segregare costa (Lunaria, Berenice, Compare e OsservAzione) (link) ha provato a rispondere a queste domande. Analizzando la spesa pubblica locale destinata al finanziamento del sistema dei “campi nomadi” a Roma (oltre che a Napoli e Milano), le associazioni che hanno curato il dossier hanno sottolineato la necessità di invertire la rotta chiedendo alle istituzioni locali di riorientare l’utilizzo delle scarse risorse a disposizione in progetti e interventi che favoriscano l’inserimento abitativo autonomo dei rom presenti sul loro territorio. Percorsi che tra l’altro potrebbero facilitare lo svolgimento di attività di sostentamento alternative a quelle informali.