Atto Camera 6-00150
Presentata da SCOTTO Arturo
24 giugno 2015, seduta n. 449
Ambito di interesse: agenda europea immigrazione, Consiglio Europeo 25-26 giugno 2015
La Camera,
sentite le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in merito alla riunione ordinaria del Consiglio dell’Unione europea del 25 e 26 giugno 2015 il cui ordine del giorno provvisorio prevede i seguenti punti:
la strategia globale della politica migratoria con particolare riguardo al trasferimento/reinsediamento dei migranti, alla cd. «Politica del ritorno», alla preparazione della Conferenza della Valletta;
le sfide della sicurezza nei confronti dei conflitti e dell’instabilità alle frontiere europee nel Sud ed in Oriente, ed il punto sull’attuazione delle misure di lotta contro il terrorismo;
le questioni economiche con la conclusione del semestre europeo e l’approvazione delle raccomandazioni per ogni singolo Paese, il punto sullo stato di avanzamento del negoziato TTIP, l’Agenda digitale europea e la Relazione dei cinque Presidenti sul miglioramento della governance economica della zona euro;
le questioni relative al rapporto della Unione europea con il Regno Unito;
premesso che:
in relazione al problema delle migrazioni ed alle politiche per la sicurezza e la difesa;
il continuo flusso di notizie che si accavallano ormai da mesi riguardo la grande tragedia delle migliaia di morti nel Mediterraneo, e l’acuirsi dei conflitti che dal Maghreb al Medio Oriente, dalla Libia, alla Siria, all’Irak, fino all’Afghanistan e Yemen, e più a sud nell’Africa Subsahariana chiamano il nostro Paese ad un’assunzione di responsabilità ed allo stesso tempo ad uno sforzo di elaborazione e proposta che siano ispirati a criteri fondati sul diritto internazionale e sui diritti umani;
vengono messi in discussione sia gli assetti politici e geopolitici precedenti che categorie di lettura ed interpretative – ormai superate – di fenomeni globali oggi ingovernabili con gli strumenti tradizionali della politica internazionale. Per questa ragione ogni proposta politica sul tema dei migranti dovrà anzitutto tentare di fare un salto in avanti rispetto ad una prassi ormai consolidata che vede le politiche dei governi europei subordinate a visioni del mondo fondate sull’interesse nazionale, l’accettazione del principio dell’ingerenza umanitaria, del securitarismo, e dell’autonomia dello strumento militare rispetto al ruolo della politica e della diplomazia;
nel frattempo aumentano, ed aumenteranno ancora, i numeri di coloro che si avviano in un percorso migratorio, e delle possibili morti in mare, o lungo gli itinerari via terra, meno noti ma non meno letali, in seguito all’acuirsi di crisi politiche e delle guerre civili in atto (si vedano ad esempio i casi di Eritrea, Siria, Irak e non solo, vista l’instabilità crescente che caratterizza anche l’Africa Subsahariana, dal Mali, al Niger, alla Nigeria);
è dal basso, e con il necessario sostegno della diplomazia delle Nazioni Unite e dell’Europa 7 che può ripartire un progetto di ricostruzione della Libia oggi smembrata in varie aree di potere ed influenza, da quelle che si riconoscono nel governo di Tobruk e quello di Tripoli, chi alleato dell’occidente, chi più prossimo ai Fratelli Musulmani – che in occidente perdono progressivamente appoggi –, a quelle in mano a milizie paramilitari, o al controllo delle tribù che da sempre hanno svolto un ruolo di primo piano nella gestione e ripartizione del potere nel paese;
è questo il contesto nel quale proliferano reti criminali, dedite allo sfruttamento dei migranti e di chi fugge dal proprio paese. Per l’Italia e la frontiera sud dell’Europa, passare dalla repressione dei flussi migratori a governarli, significa come prima cosa abbandonare subito l’approccio attualmente seguito e messo al centro dell’attenzione mediatica oltre che delle cancellerie europee, in base al quale si intende affrontare l’emergenza dei «barconi» e le sue ripercussioni sullo scenario mediterraneo e regionale, con un approccio privo di coordinamento, di solidarietà europea e di sussunzione del dramma dei migranti. I dettagli trapelati circa le varie opzioni previste nel Crisis Management Concept (o CMC, il documento di strategia messo a punto dall’Unione europea come cornice di riferimento per le iniziative prossime) e la conformazione della squadra navale EUNAVFOR Med rivelano ipotesi di intervento assai allarmanti. Il punto centrale non sarebbe solo più quello di distruggere i «barconi», ma anche le «strutture» utilizzate per il traffico di esseri umani, dai depositi di carburante al resto;
si ipotizza un dispiegamento di una forza armata europea sotto comando italiano, e possibilmente sotto copertura ONU. Non una «no-fly zone», ma una «no-sail zone», che rischia di aprire la strada ad un’inedita modalità di intervento militare, non con «scarponi sul terreno», ma con la presenza permanente di un apparato «dual use» di «soccorso» ed anche di «combattimento» pronto ad essere adattato ed attivato a seconda del bisogno;
un apparato che si affida ad alleati scomodi, giacché il traffico di esseri umani ha radici profonde, con commistione di interessi criminali e di élite militari e politiche che non si limitino alla Libia. In Egitto ad esempio, che secondo indiscrezioni starebbe già pianificando la costruzione di una coalizione pan-araba con il sostegno dell’Italia e della Francia per attaccare e chiudere la partita con i Fratelli Musulmani. Resta il fatto che il governo di Tobruk, quello che viene visto come legittimo interlocutore dall’occidente non accetterà mai interventi militari dell’Unione europea, seguito in questo anche dal governo di Tripoli, mentre il generale Haftar è pronto alla rottura definitiva, avendo già annunciato il ritiro dal negoziato ONU. In questo ginepraio, geopolitico e non, si rischia di fare ancor di più dei migranti merce di scambio, i cui diritti universali vengono negati e compressi da più parti;
le recenti indiscrezioni sulla strategia europea messa a punto per l’operazione in corso di definizione, e che sarà a comando italiano, confermano che esiste la possibilità concreta di azioni di terra, con possibili vittime civili, in aree oggi controllate da milizie appartenenti alla fazione del governo di Tripoli, ed in parte da gruppi vicini al Daesh (ISIS). Non a caso si tratta della stessa area sotto controllo di un governo e di un’organizzazione, quella dei Fratelli Musulmani, invisi in primis al Presidente egiziano, Fattah Al-Sissi, grande alleato di Roma e dell’Europa nella lotta contro il Califfato;
l’alleanza di Roma con il Cairo va oltre gli interessi economici dell’Italia, prefigurando una strategia politica del governo di tipo avventuristico che pregiudica il possibile ruolo di interlocutore politico super partes del nostro Paese nonché di attore responsabile (il cui dovere di responsabilità è ancora maggiore visto il nostro passato coloniale in Libia) in uno scacchiere fatto di conflitti e violazioni continue dei diritti umani. La recente condanna a morte dell’ex-presidente Morsi lo sta a dimostrare. In nome di un principio «umanitario» si fanno così alleanze con chi i diritti umani li calpesta, dal Cairo fino all’Eritrea, compresi quei signori della guerra quali il generale Haftar che rappresenta uno degli elementi di maggiore destabilizzazione della già disastrata Libia, oppure Isaias Afeworki in Eritrea dal cui regime donne ed uomini eritrei fuggono a decine di migliaia e che oggi viene riabilitato dall’Italia e dall’Unione europea come attore chiave per la gestione dei flussi migratori, nel cosiddetto processo di Khartoum;
alla base di iniziative dalle conseguenze imprevedibili, come quella di cui l’Italia si è resa protagonista in Europa, c’è l’intreccio costruito ad arte in questi mesi, e mai o mal contrastato, tra retorica dell’emergenza umanitaria e dichiarata volontà di voler prevenire nuove morti in mare, tutela dell’interesse nazionale (in primis delle imprese italiane e degli approvvigionamenti energetici) e l’allarme di trovarsi uno stato definitivamente fallito alle porte – la Libia appunto – come possibile retrovia per le milizie del Califfato. L’ossessione securitaria utilizzata ad arte secondo modalità e semantiche diverse, ma alla fine convergenti, potrebbero aumentare piuttosto che diminuire l’instabilità, mettendo ovviamente a maggior repentaglio l’incolumità dei migranti vittime dei trafficanti, in nome dei quali si pretende di intervenire;
d’altronde, interrompendo un percorso se ne produce un altro, spesso più rischioso per i migranti di quello precedente. In altre parole non si riduce il flusso bensì lo si rende più «invisibile» e, spesso, più letale. Affondare i barconi, dunque, avrebbe l’effetto «apparente» di interrompere per qualche tempo una rotta dei migranti, niente di più;
non è possibile isolare il tema dell’intervento militare quale soluzione alla tragedia delle morti in mare dal contesto geopolitico nel quale si intende intervenire, e dalle concause che ne sono alla radice. Senza trascurare il fatto che l’eventuale ricorso all’uso della forza rischia da una parte di chiudere decine di migliaia di migranti in una morsa micidiale, dall’altra di aggravare oltre ogni misura l’instabilità in Libia, pregiudicando gli sforzi delle Nazioni Unite e dell’inviato speciale Bernardino Leon per la costituzione di un governo di unità nazionale;
un intervento internazionale a comando italiano, sul terreno di un paese, nostra ex-colonia, le cui due fazioni contrapposte, il governo di Tobruk e quello di Tripoli, hanno chiaramente espresso la loro opposizione, ci trasformerebbe poi in bersaglio ideale per gli adepti del Califfato, aumentando così i rischi per la sicurezza nel nostro Paese;
occorre, invece, rafforzare la capacità di salvataggio delle persone in mare, sulla scorta di quanto fatto a suo tempo con l’operazione Mare Nostrum. Le proposte contenute nel piano europeo, di rafforzamento della missione Frontex chiamata Triton, non sono adeguate all’urgenza di prevenire nuove morti, a maggior ragione considerando le previsioni fatte dall’ACNUR rispetto all’aumento esponenziale di persone che cercheranno di lasciare la Libia per arrivare nel nostro Paese;
il riconoscimento del diritto alla mobilità come diritto umano fondamentale va accompagnato dall’irriducibile logica della mediazione politica dei conflitti e la loro prevenzione diplomatica e dal rifiuto netto di soluzioni militari e dal ripudio di soluzioni militari come mezzo di risoluzioni delle controversie internazionali;
in relazione alla governance economica europea:
il 30 giugno scadrà il vecchio programma di aiuti per la Grecia, già prorogato di 4 mesi; il governo di Atene dovrà rimborsare complessivamente entro il 13 luglio al Fondo monetario internazionale, poco meno di due miliardi di euro, mentre tra luglio e agosto dovrà rimborsare alla BCE circa 7 miliardi di euro per i bond in scadenza;
in realtà, non esiste il «caso greco» ma bensì la questione della revisione in profondità delle politiche economiche cd. «dell’austerità» portate avanti dagli organismi dirigenti dell’eurozona e da molti governi dei paesi che fanno parte;
l’attuale quadro di governance dell’Unione economica e monetaria non consente di avviare un dibattito adeguato sulle prospettive economiche dell’area euro o di adottare una posizione di bilancio coerente, oltre a non affrontare le diverse situazioni economiche e fiscali su un piano di piena parità;
importanti iniziative strategiche, che includevano raccomandazioni politiche, erano basate su previsioni economiche che non avevano previsto la bassa crescita e inflazione registrate e che non hanno tenuto pienamente conto della sottovalutazione delle dimensioni del moltiplicatore fiscale, dell’importanza degli effetti di ricaduta nei vari Paesi in un periodo di consolidamento sincronizzato e dell’effetto deflazionistico di riforme strutturali cumulative;
la situazione attuale richiede un coordinamento economico più stretto ed inclusivo (aumentare la domanda aggregata, migliorare la sostenibilità di bilancio e consentire riforme strutturali sostenibili e i relativi investimenti) nonché reazioni rapide al fine di correggere le carenze più evidenti nel quadro della governance economica;
l’accumulo di procedure rende il quadro della governance economica complesso e non sufficientemente trasparente, il che va a scapito dell’appropriazione e dell’accettazione da parte dei parlamenti, delle parti sociali e dei cittadini, delle linee guida, delle raccomandazioni e delle riforme che derivano da tale quadro;
è necessario che il quadro della governance economica sia corretto e completato a medio e lungo termine al fine di consentire all’Unione europea ed all’area dell’euro di conseguire le sfide in materia di convergenza, investimenti di lungo periodo e la fiducia degli operatori socio-economici;
la legislazione è stata attuata durante la crisi sulla base di accordi intergovernativi ed è mancata la responsabilità democratica a livello dell’Unione europea. È dunque necessario porre fine agli accordi puramente intergovernativi e promuovere un maggiore coinvolgimento dei parlamenti. Ciò costituirebbe, a livello europeo, una condizione indispensabile per aumentare la legittimità democratica. La responsabilità democratica risulta indebolita anche dall’estrema complessità del quadro;
il Governo italiano ha inviato, in data 25 maggio 2015, il proprio contributo sulla riforma della Unione economica e monetaria europea, senza che vi sia stato un formale passaggio parlamentare, condizione questa che avrebbe contribuito a rafforzare il peso politico-istituzionale del nostro Paese;
la creazione del meccanismo europeo di stabilità (MES) al di fuori della struttura delle istituzioni dell’Unione, rappresenta un passo indietro per l’integrazione politica dell’Unione stessa. Sarebbe, pertanto, opportuno che il MES fosse pienamente integrato nel quadro comunitario e reso formalmente responsabile nei confronti del Parlamento europeo;
i cinque Presidenti (Juncker della Commissione Unione europea, Tusk del Consiglio europeo, Dijsselboem dell’Eurogruppo, Draghi della BCE e Schulz del Parlamento europeo) hanno predisposto un documento («Completing Europe’s Economic and Monetary Union») che dovrebbe diventare la base di discussione del prossimo vertice europeo. Esso ha il proposito di accelerare la convergenza delle economie europee realizzando una convergenza delle politiche economiche. Nel documento l’enfasi è posta sulle politiche nazionali in materia di bilancio e di fiscalità, nonché sulle riforme, tutte liberalizzanti (mercato del lavoro, privatizzazioni, pensioni). Il documento contiene anche indicazioni, per il momento assai vaghe, in materia di bilancio europeo e di solidarietà. Al Parlamento europeo sarebbe riconosciuto un non meglio specificato ampliamento di potere. In questo quadro non si capisce perché occorra dilazionare le misure riguardanti il bilancio europeo, la solidarietà e le politiche sociali;
l’intervento prospettato in tale documento si articola in due fasi temporali ed agisce su quattro pilastri:
A) Fase 1: 1o luglio 2015 – 30 giugno 2017;
1) rafforzamento dell’Unione economica e monetaria europea attraverso:
la creazione in ogni Paese membro dell’eurozona di un’Autorità indipendente incaricata di valutare i progressi conseguiti con le riforme economiche e, in particolare, che i salari evolvano in linea con la produttività;
l’effettiva attuazione della procedura per gli squilibri macroeconomici, soprattutto con riferimento al meccanismo sanzionatorio (anche per i Paesi, come la Germania, che hanno un surplus nelle partite correnti);
un focus rafforzato sulle performance occupazionali e sociali;
un maggiore coordinamento delle politiche economiche nell’ambito del Semestre europeo;
2) completamento dell’Unione finanziaria, attraverso:
completamento dell’Unione bancaria, con l’istituzione del fondo per la risoluzione delle crisi e il sistema comune di garanzia dei depositi;
l’avvio della costruzione dell’Unione dei mercati dei capitali, per diversificare le fonti di finanziamento dell’economia;
3) rafforzamento dell’Unione fiscale, attraverso:
l’istituzione di un’Autorità europea indipendente incaricata di valutare la conformità dei bilanci nazionali con le raccomandazioni approvate a livello dell’Unione europea;
4) rafforzamento della legittimità e della responsabilità democratica, mediante:
una maggiore cooperazione tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali;
l’istituzione di un Presidente permanente dell’Eurogruppo (attualmente ha un mandato di due anni e mezzo), scelto anche al di fuori dei Ministri delle finanze dell’eurozona;
la rappresentanza unitaria dell’eurozona negli organismi internazionali;
l’integrazione del diritto dell’Unione europea del Fiscal Compact, del Trattato intergovernativo che istituisce il Fondo unico di risoluzione delle crisi bancarie e delle parti più rilevanti del Patto Europlus;
una consultazione più sistematica da parte dei Governi dei parlamenti nazionali e delle parti sociali prima di sottoporre i Piani nazionali di riforma e i Programmi di stabilità.
B) Fase 2: luglio 2017-2015:
1) Unione economica:
rendere più vincolante il processo di convergenza, concordando una serie di standard a livello europeo che ogni governo dovrà raggiungere in ambito di mercato del lavoro, competitività, ambiente economico, pubblica amministrazione e politica fiscale;
2) Unione fiscale:
istituzione di un sistema di stabilizzatori comuni (ammortizzatori sociali) per reagire agli shock, cui potranno accedere i Paesi che avranno fatto le riforme;
3) legittimità e responsabilità democratica:
integrazione del Trattato ESM nella cornice giuridica dell’Unione europea;
istituzione di un «Tesoro europeo»: sebbene le decisioni di bilancio rimarranno di competenza nazionale, occorre prevedere un sistema che consenta di prendere le decisioni collettivamente;
non ci sono dubbi che occorra una maggiore convergenza delle economie europee. Ma è proprio per questo che va bandito il concetto stesso di convergenza delle politiche economiche. Per integrare le diverse economie europee occorrono infatti politiche economiche differenziate, occorre cambiarle tutte ma con azioni diverse e in qualche modo opposte. I paesi con un avanzo della bilancia commerciale devono attuare politiche espansive mentre quelli in disavanzo dovrebbero porre in essere misure per importare di meno ed esportare di più, con l’aiuto temporaneo di fondi europei;
oggi in Europa la Germania si ritiene «virtuosa» perché ha un bilancio pubblico in ordine ed un surplus di bilancia commerciale. Vuole che tutti i Paesi europei le somiglino in «virtù». Pretende – e la Commissione ed altri Paesi concordano – che ciò avvenga con bilanci restrittivi e riforme che diano maggiore spazio alla mitologia del mercato. Come risultato tutti stanno peggio e meno in equilibrio di come sarebbe possibile ed auspicabile. Tutti i Paesi euro procedono infatti a velocità inutilmente ridotta. Nessuno sembra essere sfiorato dal pensiero che il surplus sia intrinsecamente un fattore di distorsione internazionale, ancor di più se all’interno di un’area monetaria unica, e che non tutti possono permettersi di avere una bilancia commerciale in attivo;
l’attuale assetto mercantilistico europeo si muove in direzione opposta rispetto alle esigenze di armonizzazione creando squilibri strutturali sistemici irrecuperabili se si permane in questo quadro. Eppure le regole europee prevedono di intervenire rispetto agli eccessi esportativi. Ma su questo aspetto, oltre a blandi richiami non si è andato oltre, ad esempio nei confronti della Germania;
l’armonizzazione occupazionale non è stata certo prodotta dalle politiche di «liberalizzazione» del lavoro, che hanno, invece, acuito i differenziali quantitativi e qualitativi;
a molti sfugge, inoltre, la dimensione temporale. L’accumulazione di capitale, tecnico e umano, viene prima (e costa prima) di quando possano maturare i suoi frutti. Quindi non può avvenire in un quadro restrittivo. Prima occorre spendere senza incassare e, successivamente, verrà il momento di incassare. Le riforme, anche se per ipotesi ben disegnate, hanno bisogno di cambiamenti e adattamenti che durano anni prima di potere cambiare i Paesi che le attuano;
molte delle riforme proposte, quelle all’insegna «del più mercato comunque e ovunque», peggiorano le condizioni generali dei Paesi, come è evidente dalle esperienze già fatte, non appena le si valuti appropriatamente e con riferimento a periodi sufficientemente lunghi (si pensi alla distribuzione dell’acqua);
le costanti fibrillazioni negoziali cui si sono ridotti gli organismi comunitari determinano uno stato di incertezza in cui non possono emergere aspettative affidabili ed espansive; dunque, gli investimenti languono perché nessuno si sente di scommettere sul futuro, le famiglie risparmiano troppo e la speculazione trova il terreno più fertile; una ripresa della costruzione europea presuppone che si ponga al primo posto, temporalmente e per enfasi, solidarietà e bilancio federale (quegli aspetti che il documento dei Presidenti dilaziona nel tempo). L’obiettivo di fare dell’Europa un polo competitivo mondiale attraverso la valorizzazione della conoscenza, quindi del suo patrimonio culturale in senso ampio, della sua civiltà umanistica oltre che tecnica, andrebbe ripreso con forza;
in relazione allo stato di avanzamento del negoziato TTIP:
il 24 aprile 2015 si è concluso il nono round negoziale sul «Transatlantic Trade and Investment Partnership» (TTIP), che ha avuto quale oggetto tutte le aree riguardanti il negoziato tra Unione europea e gli Stati Uniti d’America;
al termine del round negoziale si è tenuta una conferenza stampa in cui il capo negoziatore per l’Unione europea, Ignacio Garcia Bercero, ha riassunto i principali risultati. Per quanto attiene l’accesso al mercato, tariffe e appalti, entrambe le partì hanno proseguito nella valutazione complessiva delle reciproche offerte arrivando ad una maggiore comprensione delle rispettive priorità e sensibilità. L’accordo salvaguarderà le modalità con cui i governi nazionali individuano e forniscono servizi pubblici ai cittadini, lasciandoli liberi di decidere in qualsiasi momento che certi servizi devono essere necessariamente forniti dal settore pubblico. Sulle questioni regolamentari, si sono svolte discussioni dettagliate sia sui temi della cooperazione orizzontale sia su tutti e nove i settori specifici (automobili, farmaceutici, dispositivi medici, cosmetici, prodotti ingegneristici, tessili, pesticidi, tecnologie dell’informazione e della comunicazione). Per quanto riguarda gli standard le due parti avrebbero assunto un impegno fermo ed inequivoco in base al quale i regolatori Unione europea e USA non introdurranno alcuna misura che possa abbassare o mettere a rischio i livelli di protezione dell’ambiente e di tutela della salute e della sicurezza dei consumatori nonché degli altri obiettivi pubblici. In materia di regole, si è discusso in particolare di energia e materie prime, valutando come il TTIP possa contribuire ad assicurare a terze parti un accesso trasparente e non discriminatorio alle infrastrutture energetiche ed esaminando come migliorare la cooperazione nel settore energetico. In ogni caso, non è stato ancora deciso se un capitolo in tema di energia e materie prime farà parte del testo dell’accordo o meno. Per ciò che riguarda le piccole e medie imprese si è proseguito il dibattito per valutare quali benefici possano trarre dal TTIP;
in occasione della settimana negoziale, l’Unione europea ha reso pubblico il risultato di un’indagine svolta presso 900 PMI europee per identificare gli ostacoli incontrati nel commercio transatlantico. Molti di loro avrebbero sottolineato l’importanza di avere migliore accesso alle informazioni, costi ridotti per certificazioni e ispezioni, minore procedure doganali;
da un recente studio sul TTIP realizzato da uno dei più autorevoli centri di ricerca austriaci, lo Öfse, commissionato dal gruppo parlamentare europeo Gue/Ngl, è emerso che tutti gli studi finora fatti sul TTIP, commissionati dalla Commissione europea e che descrivono risultati sorprendenti, in verità presentano gravi omissioni ed errori metodologici che enfatizzano i presunti benefici dell’accordo, ignorandone invece i rischi;
sempre secondo lo studio austriaco in merito agli effetti sulla crescita, sugli aumenti in termini di prodotto interno lordo e dei salari reali (secondo i quattro paper quali: più crescita, più esportazione, più occupazione e meno burocrazia), il TTIP sarà in grado di generare un moltiplicatore che si attesterebbe tra uno 0,3 per cento e uno 1,3 per cento nel corso di un «periodo di transizione» di 10-20 anni. Quindi una crescita annuale che va dallo 0,03 allo 0,13 per cento l’anno, praticamente briciole. Sul fronte dell’impiego, gli studi «ufficiali» prevedono che la disoccupazione rimarrà stabile o al massimo avrà una flessione dello 0,42 per cento. Questa stima lo Öfse la definisce irrealistica prevedendo, al contrario, un aumento significativo della disoccupazione (anche a lungo termine) durante il periodo di transizione a causa della riorganizzazione dei mercati del lavoro nazionali;
rispetto all’impatto del TTIP sul volume degli scambi commerciali, lo Öfse afferma che è prevedibile un aumento delle esportazioni dell’Unione europea nel suo complesso, ma a beneficiare dell’incremento saranno soprattutto i grandi gruppi industriali a scapito delle piccole e medie imprese. A tal riguardo, l’Italia rappresenta un caso esemplare perché i recenti dati forniti dall’Organizzazione mondiale del commercio, le imprese italiane che esportano risultano essere 210 mila, ma sono le prime 10 che detengono il 72 per cento delle esportazioni nazionali, ossia le multinazionali a scapito del tessuto economico-sociale del sistema Paese che si basa, in larghissima parte, sulla piccola e media impresa;
è prevedibile che l’ingresso di prodotti statunitensi a basso costo sul mercato europeo, ridurrà notevolmente il commercio intra-europeo nella misura del 30 per cento (dati Öfse) a scapito soprattutto delle economie meno export-oriented, che subirebbero un probabile deterioramento delle loro bilance commerciali;
altro elemento deleterio, secondo lo Öfse, del TTIP è l’impatto negativo che si genererebbe sulle esportazioni e sul prodotto interno lordo dei Paesi meno sviluppati, in violazione, tra l’altro, degli impegni internazionali dell’Unione Europea a promuovere la coerenza delle politiche di sviluppo;
i costi sociali ed economici derivanti dall’eliminazione delle cosiddette «barriere non tariffarie» sarebbero imprevedibili e pericolosi per la tenuta sociale. Tant’è vero che per stessa ammissione dei funzionari europei e statunitensi, lo scopo primario dell’accordo non è di stimolare gli scambi attraverso l’eliminazione delle tariffe tra Unione europea e USA, che sono già a livelli minimi, ma piuttosto attraverso l’eliminazione di tutte quelle barriere normative che limitano i profitti potenzialmente realizzabili dalle società transnazionali come, ad esempio, gli standard che l’Europa nel corso della sua formazione s’è data in materia ambientale (come il principio di precauzione), i diritti dei lavoratori, la sicurezza alimentare, la discrezionalità degli Stati nel perseguire o no le politiche a favore degli organismi geneticamente modificati, eccetera);
la Commissione europea ha avviato il 27 marzo 2014 una consultazione pubblica online sulla protezione degli investitori e sulla composizione delle controversie investitore-Stato (Investor-state dispute settlement – ISDS) nel contesto del TTIP;
la consultazione ha inteso verificare se l’approccio proposto dall’Unione europea per il TTIP abbia raggiunto il giusto equilibrio tra la protezione degli investitori e la salvaguardia del diritto dell’Unione europea di introdurre regolamentazioni nel pubblico interesse;
il 13 gennaio 2015 la Commissione ha reso pubblica la propria dettagliata analisi delle quasi 150.000 risposte ricevute, dalle quali emerge chiaramente un notevole scetticismo nei confronti dello strumento ISDS e la necessità di «intavolare una discussione aperta e franca» prima di varare qualsiasi raccomandazione politica in questo ambito;
il 6 maggio 2015 il Commissario Cecilia Malmström ha presentato un concept paper nel quale illustra le proposte per riformare il meccanismo ISDS tenendo conto delle critiche formulate in quattro aree. La prima riguarda il diritto a regolamentare degli Stati introducendo disposizioni volte a garantire il diritto degli Stati di prendere misure per obiettivi di interesse pubblico secondo il grado di protezione ritenuto più appropriato. La seconda attiene la trasparenza/nomina degli arbitri, prevedendo che gli arbitri del sistema ISDS siano scelti nell’ambito di un albo prestabilito dalle parti dell’accordo e prevede che abbiano specifiche qualificazioni di attività giurisdizionale. La terza si è focalizzata nel rapporto con le giurisdizioni nazionali dove bisogna imporre agli investitori esteri, che vogliano aprire un contenzioso, di scegliere, all’inizio del procedimento, tra il ricorso al meccanismo ISDS o quello delle Coni nazionali, oppure in alternativa richiedere all’investitore di rinunciare alla giurisdizione domestica una volta adito il sistema ISDS. La quarta è quella dell’introduzione del diritto di appello rispetto alle decisioni assunte con meccanismo ISDS, sulla base dell’organismo di appello esistente nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tale organo sarebbe formato da 7 membri permanenti e dovrebbe disporre di un segretariato;
nel documento, il Commissario propone, inoltre, a medio-lungo termine di far evolvere il sistema ISDS verso un sistema multilaterale attraverso la creazione di una Corte permanente internazionale, composta da giudici titolari e deputata a regolamentare l’ambito delle controversie in tutti gli accordi commerciali che richiedano un sistema di ISDS;
l’impegno della Commissione è stato quello di presentare a breve proposte in tal senso;
il sistema ISDS, nel nome delle regole a protezione degli investimenti, rischia di tradursi in un pregiudizio costituzionale del diritto degli Stati a legiferare;
nella plenaria del 15 giugno del Parlamento europeo il voto e le successive discussioni sul TTIP sono state rimandate. Dal punto di vista tecnico, la scelta è stata motivata dall’eccessiva quantità di emendamenti (circa 200) e richieste di voto separate, ma parrebbe che tutto sia da imputare ad un emendamento socialista sul ISDS perché il timore è che, inserendo questo meccanismo nei trattati, si finisca per favorire le grandi aziende che possono sfidare i governi in tribunali ad hoc se questi approvano leggi che ledono i loro profitti. Per questo il gruppo dei socialisti propone una soluzione permanente senza utilizzare il sistema privato;
la Commissione commercio internazionale del Parlamento europeo ha approvato il 28 maggio 2015 una relazione (28 voti a favore e 13 contrari) in cui raccomanda alla Commissione europea che il sistema di protezione degli investitori (ISDS) dovrebbe prevedere giudici togati nominati pubblicamente e indipendenti, audizioni pubbliche, un meccanismo di appello che assicuri la coerenza delle sentenze e il rispetto della giurisdizione dell’Unione europea e di quella nazionale. Nel medio termine, si dovrebbe istituire una «Corte internazionale per gli investimenti»; negoziare una lista esaustiva di prodotti agricoli e industriali sensibili che potrebbe essere esentata dalla liberalizzazione commerciale, oppure essere sottoposta a un periodo di transizione più esteso. Dovrebbe essere eliminato il divieto statunitense sull’importazione di carne di manzo europea e salvaguardato il sistema europeo d’indicazione geografica e delle denominazioni di origine di qualità; prevedere un sistema di riconoscimento reciproco degli standard equivalenti per la salute pubblica, per i prodotti alimentari e per le piante e in ogni caso, deve essere mantenuto il rispetto del «principio di precauzione» in vigore nell’Unione europea; dovrebbe essere previsto uno specifico capitolo dedicato all’energia e abolite le restrizioni esistenti o gli ostacoli all’esportazione dei carburanti, compresi il GNL e il petrolio greggio tra Unione europea e Stati Uniti; che l’acquis comunitario in materia di protezione dei dati personali non sia compromesso dalla liberalizzazione dei flussi di dati, in particolare nel settore del commercio elettronico e dei servizi finanziari; siano rimosse le restrizioni USA in merito all’acquisizione da parte di imprese europee di servizi marittimi e aerei nonché di compagnie aeree; sia superata la disparità nell’apertura dei mercati degli appalti pubblici attraverso un’apertura significativa del mercato statunitense degli appalti pubblici a tutti i livelli di governo; sia garantita un’opportuna esclusione dei servizi sensibili, quali i servizi pubblici e le aziende di pubblica utilità (tra cui acqua, sanità, previdenza sociale e istruzione); l’accordo includa un capitolo specifico per le PMI che preveda di: eliminare il doppio requisito di certificazione, istituire un sistema d’informazione via web sulle diverse regolamentazioni, introdurre una «corsia preferenziale» alle frontiere o eliminare alcuni picchi tariffari; si preveda un capitolo sui diritti di proprietà intellettuale (DPI) che comprenda una tutela sicura di settori DPI definiti in modo chiaro e preciso; si insista sulla ratifica ed applicazione da parte degli Stati Uniti, delle otto convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro (finora gli USA ne hanno ratificate solo due); sia previsto un monitoraggio delle incidenze economiche, occupazionali, sociali e ambientali del TTIP. Si chiede, inoltre, alla Commissione europea di eseguire studi di impatto per ciascuno Stato membro come pure una valutazione della competitività dei settori dell’Unione rispetto ai settori analoghi degli Stati Uniti; sia assicurata una migliore trasparenza dei negoziati, rendendo pubblico un numero superiore di testi. Dovrebbe essere garantito ad ogni parlamentare europeo l’accesso ai testi consolidati (ossia ai capitoli già concordati tra Unione europea e Stati Uniti). I Governi devono essere incoraggiati a coinvolgere i Parlamenti nazionali, tenendoli adeguatamente informati sui negoziati in corso;
la Commissione nella Comunicazione del 25 novembre 2014 (COM(2014)9052), afferma di volersi impegnare nel rendere pubblici un maggior numero di testi negoziali dell’Unione europea che la Commissione già condivide con Stati membri e Parlamento; di fornire l’accesso ai testi relativi al TTIP a tutti i membri del Parlamento europeo, e non soltanto ai pochi selezionati, all’interno della cosiddetta «reading room»; di classificare meno documenti come «ad accesso limitato», rendendoli più facilmente accessibili ai membri del Parlamento europeo fuori dalla reading room; di pubblicare e modificare su base regolare la lista pubblica dei documenti condivisi con Parlamento europeo e Consiglio;
nella Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea tenutasi a Roma il 20-21 aprile 2015, si è molto insistito sul ruolo dei Parlamenti nazionali nei negoziati dei Trattati internazionali. Nelle conclusioni adottate si sottolinea la volontà di non vedere limitate le capacità di intervento dei parlamenti nazionali al solo processo di ratifica; si ribadisce la necessità che venga concessa la possibilità di esercitare una specifica competenza sul maggior numero possibile di accordi di libero scambio e, più in generale, un ampio accesso alle informazioni sui negoziati in corso, onde poter esprimere i propri orientamenti sui negoziati stessi; si invita la Commissione europea a garantire ai parlamentari nazionali lo stesso accesso ai documenti che dal gennaio 2015 è consentito a tutti i membri del Parlamento europeo;
il Senato americano il 13 maggio ha votato contro l’inizio del dibattito sul «Wyden-Hatch-Ryan promotion authority bill», «fast track», che consente al presidente degli Stati Uniti una «corsia preferenziale» per mandare avanti il Trattato TPP tra gli USA e 11 Paesi del Pacific Ring (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Messico). Il TPP creerebbe una zona di libero scambio che coprirebbe il 40 per cento dell’economia mondiale. Il voto contrario rappresenta le medesime preoccupazioni esistenti in Europa per il TTIP: ossia carenza nella pubblicità dei lavori, minore qualità e quantità dell’occupazione e assenza di adeguate tutele sociali per i lavoratori. Il presidente Obama aveva affermato sul TPP al Parlamento americano di non necessitare del «fast track» e, precisamente: «questo è un percorso molto intenzionale che sarà pienamente soggetto al controllo. In realtà il «fast track» è stato bocciato grazie ai voti contrari dei senatori del suo partito;
in relazione all’agenda digitale:
la strategia per il mercato unico digitale, comprensivo di 16 azioni chiave che dovranno essere attuate entro la fine del 2016 poggia su tre pilastri fondamentali relativi alla necessità di: migliorare l’accesso ai beni e servizi digitali in tutta Europa per i consumatori e le imprese; creare un contesto favorevole e parità di condizioni affinché le reti digitali e i servizi innovativi possano svilupparsi; e, infine, massimizzare il potenziale di crescita dell’economia digitale;
l’obiettivo del mercato unico digitale è di abbattere le barriere regolamentari fino ad instaurare un unico mercato, al posto dei 28 mercati nazionali ora esistenti, in quanto un mercato unico digitale pienamente funzionante potrebbe apportare all’economia europea 415 miliardi di euro l’anno e creare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro;
con riferimento al primo pilastro (migliorare l’accesso ai beni e servizi digitali in tutta Europa per i consumatori e le imprese) la Commissione propone di introdurre norme tese ad agevolare il commercio elettronico transfrontaliero; garantire un’attuazione più rapida ed omogenea delle norme di protezione dei consumatori; assicurare servizi di consegna dei pacchi più efficienti e a prezzi accessibili; eliminare il blocco geografico ingiustificato (una pratica discriminatoria utilizzata per motivi commerciali, secondo la quale i venditori online impediscono ai consumatori di accedere a un sito Internet sulla base della loro ubicazione, o li reindirizzano verso un sito di vendite locale che pratica prezzi diversi); individuare potenziali problemi relativi alla concorrenza che possano incidere sui mercati europei del commercio elettronico; rivedere la direttiva sulla trasmissione via satellite e via cavo per verificare se il suo ambito di applicazione debba essere esteso alle trasmissioni radiotelevisive online e per esaminare come aumentare l’accesso transfrontaliero ai servizi radiotelevisivi in Europa; ridurre gli oneri amministrativi che derivano alle imprese dai diversi regimi IVA;
con riferimento al secondo pilastro (creare un contesto favorevole e parità di condizioni affinché le reti digitali e i servizi innovativi) la Commissione propone di: presentare una revisione della regolamentazione europea in materia di telecomunicazioni; riesaminare il quadro dei media audiovisivi mettendo in rilievo il ruolo dei diversi operatori del mercato nella promozione delle opere europee; effettuare un’analisi dettagliata del ruolo delle piattaforme online; rafforzare la fiducia nei servizi digitali e la sicurezza degli stessi, in particolare per quanto riguarda il trattamento dei dati personali; proporre un partenariato con l’industria sulla sicurezza informatica nell’ambito delle tecnologie e delle soluzioni per la sicurezza delle reti;
con riferimento al terzo pilastro (massimizzare il potenziale di crescita dell’economia digitale) la Commissione propone: un’iniziativa europea per il libero flusso dei dati per promuoverne la libera circolazione nell’Unione europea; individuare le priorità per l’elaborazione di norme e l’interoperabilità in settori fondamentali per il mercato unico digitale, quali la sanità elettronica, la pianificazione dei trasporti o l’energia (contatori intelligenti); promuovere una società digitale inclusiva in cui i cittadini dispongano delle competenze necessarie per sfruttare le opportunità offerte da Internet e aumentare le possibilità di trovare un lavoro;
ciascuno dei pilastri sopra citati risponde a problemi precisi che la Commissione identifica all’interno dei mercati digitali europei che coincidono con aspetti su cui l’Italia purtroppo sconta ritardi storici;
il nostro Paese è, purtroppo, in ritardo per basso utilizzo di e-commerce da parte di cittadini e imprese (appena il 5 per cento delle Pmi, nel 2014; nel 2013 era il 4 per cento), per uso di servizi della pubblica amministrazione digitale (da appena il 18 per cento degli utenti, secondo dati della Commissione, contro la media Ue del 33 per cento). I servizi digitali sono, infatti, poco funzionali e poco usabili e nonostante l’Agenzia per l’Italia Digitale e il Governo si stanno occupando del problema già da diverso tempo, il piano di Italia Login ad esempio (una piattaforma che semplifica l’accesso a servizi pubblici e privati digitali) e di Spid (l’identità digitale) che servono, appunto, a diffondere questi servizi tra la popolazione, abbattendo costi, tempi, burocrazia non sono ancora diventati concretamente operativi;
nonostante solo pochi giorni fa il «Digital economy and society index» dell’Unione Europea ponga l’Italia al venticinquesimo posto su 28 Stati membri, ovverosia, nel gruppo dei Paesi peggiori, perché solo il 51 per cento della popolazione ha un abbonamento alla banda larga fissa (la percentuale più bassa nella Unione europea), e solo il 3,8 per cento con una velocità superiore ai 30 megabit al secondo, secondo quanto risulta dalla stampa nazionale il c.d. «Decreto Comunicazioni» risulta ancora congelato, così come, di fatto, inattuato il Piano Nazionale per la Banda Ultralarga presentato il 4 marzo scorso, con cui il Governo ha previsto un piano di investimenti pubblici fino a 12 miliardi di euro in 7 anni (4,4 miliardi FERS/FEASR, 5 miliardi FSC, e altre risorse dal Fondo Junker, decreto-legge «Sblocca Italia» ed economie SPC) per la realizzazione delle reti;
a latere delle iniziative assunte a livello europeo esplicitate nel Paper del Governo che sintetizza la posizione italiana sulla strategia del mercato unico digitale, documento che appare in parte condivisibile sotto il profilo degli obiettivi (1. Mercato digitale e investimenti: migliorare l’interoperabilità e valorizzare l’e-commerce, armonizzare le politiche fiscali; 2. Accesso a internet veloce e superveloce: reti di comunicazione e servizi, dovrebbe essere data a tutti i cittadini la possibilità di connettersi a una rete ad alta velocità nel 2020; 3. Internet governante e fiducia dei consumatori: migliorare sicurezza e garanzie; 4. Industria creativa: sostenere il diritto d’autore on line e l’audiovisivo; 5. Ricerca e Innovazione: liberare il potenziale innovativo attraverso il nuovo modello di manifattura digitale e start up; 6. Ottenere vantaggi sociali dalle ICT: migliorare l’alfabetizzazione, le competenze e l’inclusione nel mondo digitale; 7. l’E-government e infrastrutture: modernizzare il settore pubblico e la rete digitale, Big data e Cloud computing) appare in ogni caso quanto mai urgente che il Governo adotti, innanzitutto, a livello nazionale tutte le iniziative necessarie per dare nuovo impulso all’attuazione dell’Agenda digitale, in particolare per quanto concerne la realizzazione degli interventi infrastrutturali necessari per dotare il Paese di una rete idonea a consentire il raggiungimento degli obiettivi di accesso a Internet previsti dall’Agenda digitale;
si deve rilevare, inoltre, che la strategia proposta dalla Commissione e le possibili modifiche alla disciplina vigente potrebbe avere un impatto molto significativo sulle politiche di finanziamento, di licenza e di protezione dei contenuti che dovrà essere tenuto in considerazione da tutti gli operatori del settore (produttori di contenuti, distributori, emittenti, e investitori) nelle future decisioni e strategie di marketing, investimento e di acquisizione dei diritti sui contenuti in Europa. In particolare per l’industria del cinema, il cui modello di business è fortemente radicato nei territori degli Stati membri e sulla prevendita nazionale dei diritti per assicurarsi le fonti di finanziamento, si tratta potenzialmente di un cambiamento determinante, soprattutto per gli operatori medi e medio-piccoli, come pure per il settore dei contenuti audiovisivi;
le questioni dibattute in sede europea si rivelano, quindi, di fondamentale importanza in un momento storico nel quale i maggiori fornitori di contenuti digitali internazionali e in particolare statunitensi cominciano ad affacciarsi al mercato europeo, considerato anche l’avvento in Italia – previsto per la fine del 2015 – della piattaforma americana Netflix, leader nella fornitura di servizi audiovisivi on-demand oltreoceano;
in relazione al rapporto tra l’Unione europea e il Regno Unito:
appena eletto David Cameron ha confermato la principale promessa pre-elettorale: il coinvolgimento popolare attraverso un referendum sul futuro dell’Inghilterra in Europa, con l’orizzonte del 2017;
il tema non è quello dell’uscita dell’Inghilterra dall’Europa ma quello di trasformare l’Unione europea per renderla capace di rispondere alle sfide provenienti dallo scenario internazionale e dal nuovo contesto socio-economico interno agli Stati membri trasformando il prossimo Consiglio d’Europa in un importante momento di confronto per definire i contorni di un processo politico che potrebbe cambiare l’Unione europea così come la conosciamo, arrivando dopo il referendum britannico anche ad una revisione dei trattati;
è la vecchia idea di «Europa e due velocità» che potrebbe rappresentare il punto di equilibrio tra l’esigenza manifestata da Paesi come Germania, Italia e Francia di integrare maggiormente l’eurozona e quella manifestata da altri come Danimarca, Polonia e Svezia, Regno Unito in testa, che chiedono di fermare il processo di accentramento dei poteri a Bruxelles e di restituire molti settori alle istituzioni della sovranità democratica nazionale. La prospettiva appare quella di mantenere integro il mercato unico, che rappresenta pur sempre il fondamento a base dell’appartenenza all’Unione e che non prevede l’adesione alla moneta unica, tenere Londra e gli altri Paesi all’interno dell’Unione europea scongiurando un pericoloso processo di disgregazione e consentire una maggiore integrazione ai Paesi dell’eurozona;
la strategia del Regno unito nel riformare profondamente l’Unione, a partire da un grande coinvolgimento popolare attraverso un referendum, parte dal momento pre elettorale in cui molti temi sono stati utilizzati da Cameron al fine di esorcizzare molte «paure» come quella indotta dalla minaccia di una crescita di consensi del partito antieuropeo Ukip di Frarage che proponeva una forte politica contro l’immigrazione e da una campagna dei media inglesi all’insegna del panico sull’aumento dell’immigrazione e sui presunti danni che causa all’economia nazionale, negando per altro, validità a importanti studi che dimostrano il contrario ovvero gli evidenti vantaggi all’economia. Tale origine «elettorale» ha distorto le possibili risposte più condivisibili al fenomeno epocale dell’emigrazione dal Sud verso il Nord portando Cameron a rimodulare le richieste britanniche in tema di immigrazione: sul tema dei migranti provenienti da Paesi terzi, si vorrebbero rassicurazioni sull’esclusione del Regno Unito dal sistema delle quote in discussione a Bruxelles. Anche sulla limitazione all’ingresso di cittadini di altri Stati membri, il Governo britannico ha scelto un approccio che limita l’accesso ai benefici previdenziali, condizionati a un periodo minimo di lavoro nel Paese di arrivo;
per quanto riguarda l’assetto politico-istituzionale dell’Unione europea riformata, Londra chiede la possibilità di recedere dall’impegno a lavorare per un’unione «sempre più stretta» previsto dal preambolo del Trattato di Lisbona. Il Governo britannico deriverebbe da tale principio la concessione ai parlamenti nazionali di un potere di veto collettivo rispetto a decisioni legislative assunte a livello europeo. Non più un potere di veto assolto dal singolo Stato europeo per impedire l’entrata in vigore di misure decise a Bruxelles e Strasburgo, ma la condivisione di questa prerogativa con gli altri parlamenti degli Stati membri che potrebbe essere esercitato da un numero minimo di assemblee nazionali;
la situazione politica della Gran Bretagna determinatasi dopo le elezioni e il dibattito che ne è scaturito in tema europeo crea un clima favorevole per affrontare il vero tema in agenda attualmente che è quello di trasformare l’Unione europea per renderla capace di rispondere alle sfide provenienti dallo scenario internazionale e dal nuovo contesto socio-economico interno agli Stati membri superando e correggendo i vizi d’origine della costruzione europea basata sulla moneta unica e sull’eccesso di potere finanziario rispetto ad una maggior integrazione politica che favorisca più democrazia e più benessere per i cittadini europei. A partire da tali temi il Consiglio Europeo può trasformarsi in un importante momento di confronto per definire i contorni di un processo politico che potrebbe cambiare l’Unione europea così come la conosciamo, arrivando anche ad una revisione seria, condivisa e profonda dei trattati;
l’idea di un’Europa più unita e integrata politicamente con un’unica voce sotto i profili delle politiche sociali, della politica estera, di difesa e di crescita economica deve essere il faro dell’azione del Governo italiano prevedendo anche momenti di avvicinamento progressivo a tali traguardi come rappresentato dall’abbozzo delle politiche britanniche in tema di Unione europea che sembrano guardare più ad un approccio di tipo federalista anche se su alcuni contenuti, come il fenomeno, non contingente ma di carattere epocale, dell’immigrazione, occorre maggior rigore e determinazione nel trovare soluzioni il più largamente possibile condivise,
impegna il Governo:
in relazione al problema delle migrazioni, della sicurezza e della difesa:
a rifiutare con determinazione ogni ipotesi di uso della forza, attraverso il dispiegamento di una flotta europea con dotazione di incursori che potrebbero colpire a terra barche ed infrastrutture di ancoraggio e altri «asset» non meglio identificati usati dai trafficanti;
a promuovere l’apertura immediata di corridoi umanitari di accesso in Europa per garantire «canali di accesso protetto» attraverso i Paesi di transito ai rifugiati che scappano da persecuzioni, guerra e conflitti ed evitare le traversate in mare e quindi debellare il traffico di essere umani e le prevedibili e evitabili tragedie in mare;
a predisporre un piano di reinsediamento in Europa per alleggerire in maniera significativa le zone ad alta concentrazione di sfollati provenienti da zone di guerra, fuggiti e oggi ospitati in Paesi molto più fragili degli Stati europei, come il Libano e la Giordania, la cui eventuale implosione sociale potrebbe produrre altri e ancor più gravi conflitti e costringerebbe alla fuga un numero molto più elevato di persone;
a chiedere l’immediata sospensione del regolamento cosiddetto «Dublino III» causa delle ultimissime tensioni alle frontiere degli Stati europei e quindi dare effettiva attuazione ai divieti di respingimento delle persone che, alle frontiere aeree, terrestri e marittime, comprese le aree di transito, manifestano la volontà di presentare una domanda di asilo, nonché vigilare sul rispetto del divieto di espulsioni collettive previsto dai protocolli addizionali alla CEDU, attraverso l’adozione di opportuni atti regolamentari e l’introduzione di procedure di monitoraggio indipendenti;
a concedere con effetto immediato permessi di soggiorno per motivi umanitari che consentano la libera circolazione negli Stati dell’Unione europea e quindi avviare l’iter per la predisposizione di una normativa dell’Unione con la quale disciplinare il riconoscimento reciproco delle decisioni di riconoscimento della protezione internazionale tra gli Stati membri;
a promuovere in sede europea una riforma del regolamento «Dublino III» e quindi di un sistema che ponga al centro:
a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, fornendo loro un’adeguata assistenza fisica, psicologica e legale, nonché un adeguato percorso di integrazione;
b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, che estenda ai richiedenti asilo ed ai rifugiati i diritti previsti per i cittadini europei dal Trattato di Schengen, permettendo così un’allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
c) la predisposizione di provvedimenti necessaria affinché il tempo richiesto per l’esame delle richieste di asilo in Italia si allinei alla media europea;
d) l’identificazione del migrante non come un limite alla propria libertà di circolazione e al pieno godimento dei diritti connessi al proprio status, ma una garanzia del rispetto degli stessi diritti;
a promuovere misure per la ricollocazione dei richiedenti asilo da uno Stato dell’Unione europea ad altri Stati Unione europea, definendo le circostanze per cui si può ritenere che uno o più paesi dell’Unione siano investiti da flussi migratori di entità superiore alla loro effettiva capacità di fornire effettiva accoglienza e prevedendo quote adeguate a fornire una risposta efficace alla situazione di difficoltà in cui versano gli Stati verso i quali sono diretti i flussi migratori significativi dei richiedenti asilo. Allo stesso tempo si deve tenere conto della volontà individuale degli interessati e della presenza di familiari in altri Stati Unione europea garantendo il diritto a presentare ricorsi giurisdizionali effettivi contro ogni provvedimento di ricollocazione, quindi non ricollocare i richiedenti asilo negli Stati membri dell’Unione europea in cui risulta non sia assicurata in alcun modo una effettiva accoglienza e protezione;
ad adottare una nuova disciplina che faciliti gli ingressi regolari prevenendo così quelli irregolari e che preveda maggiori misure di coesione sociale e di contrasto allo sviluppo di fenomeni di xenofobia;
a superare, per quanto concerne l’Italia, definitivamente il sistema dei CIE, CARA e CDA e adottare il sistema SPRAR come modello unico di accoglienza, per cui i richiedenti asilo e i beneficiari di protezione dovrebbero essere ospitati in appartamenti e strutture d’accoglienza di piccole dimensioni, «secondo quote di distribuzione regionale»;
ad aggiornare il sistema SPRAR, per cui i suoi progetti sul territorio nazionale non si attivino più solo ed esclusivamente se gli enti locali li promuovono su base volontaria, ma per obbligo di legge come dovrebbe essere in un vero sistema d’asilo nazionale;
in relazione alla governance economica europea ed agli aspetti economici e finanziari:
a impegnarsi nelle sedi istituzionali dell’Unione europea a subordinare la restituzione dei prestiti internazionali della Grecia e dei paesi più esposti al mantenimento di tutte le iniziative pubbliche volte a fronteggiare la crisi umanitaria e gli aspetti più drammatici della crisi sociale e della povertà estrema;
ad aiutare la Grecia a sostenere le sue ragioni presso l’Eurogruppo e il Consiglio europeo;
ad evitare, ritenuto che nell’ambito della governance economica siano fortemente necessarie minore complessità, migliore appropriazione, maggiore trasparenza e democrazia, che nelle sedi europee il conseguimento di una più profonda integrazione sia conseguito aggiungendo un nuovo strato di norme a quelle già esistenti;
a sostenere nelle sedi europee che gli orientamenti annuali per la crescita sostenibile debbano essere sottoposti ad una procedura di co-decisione con il Parlamento europeo;
ad adoperarsi per l’adozione di misure concrete per ampliare il processo decisionale europeo in senso democratico attraverso un ruolo più incisivo del Parlamento europeo ed un migliore e più attivo coinvolgimento dei Parlamenti nazionali: a) il PE deve avere poteri legislativi diretti e di indirizzo della politica economica; b) la Commissione deve diventare un governo eletto con politica fiscale, economica e sociale proprie; c) della BCE devono essere riviste in profondità statuto e finalità;
a sostenere come priorità del sistema di governance economica europea, il raggiungimento reale degli obiettivi posti dalla strategia Europa 2020;
a promuovere il potenziamento della strumentazione e della dotazione finanziaria dell’Unione europea, finalizzato al sostegno dell’economia, attraverso l’adozione di misure e la sperimentazione di strumenti che svolgano una funzione anticiclica;
a sostenere un processo riformatore che attribuisca alla Banca Centrale Europea un ruolo maggiormente attivo a favore della crescita;
a promuovere lo sviluppo di meccanismi europei di sostegno e mutualizzazione del debito sovrano;
a creare un fronte comune con i governi disponibili a porre con forza negli organismi della governance europea, il tema della revisione dei trattati europei a partire dal fiscal compact correggendo i vincoli del 3 per cento e del debito al 60 per cento che sono del tutto arbitrari ed assurdi, ottenendo la convocazione di una Conferenza europea per definire le necessarie modifiche;
a proporre, nell’ambito di tale Conferenza, un negoziato sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 a favore della Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra, prevedendo la rinegoziazione del debito che eccede il 60 per cento del Pil;
ad adoperarsi negli organismi europei per consentire, nel frattempo, lo sforamento del limite del deficit del 3 per cento e per ottenere la moratoria, per almeno un quinquennio, sull’applicazione delle misure obbligatorie di abbassamento del debito previste dal fiscal compact, nonché la modifica delle modalità di calcolo dei saldi corretti per il ciclo che penalizzano soprattutto Paesi come il nostro che si trova in una situazione di prolungata recessione;
a proporre con determinazione di non conteggiare nei saldi validi ai fini dei Trattati dell’Unione europea i finanziamenti degli investimenti pubblici finalizzati a misure per la crescita dell’occupazione e al co-finanziamento dei Fondi europei;
a promuovere iniziative volte a contrastare l’evasione e l’elusione fiscale a livello europeo, ed a un maggior coordinamento dei sistemi fiscali nell’Unione europea, al fine di ridurne la dannosa concorrenza fiscale;
a sostenere l’utilizzo di eurobond per far ripartire gli investimenti pubblici europei in infrastrutture e sulla green economy, nonché a sostenere la domanda aggregata in modo da rilanciare uno sviluppo sostenibile e l’occupazione;
a proporre un Green New Deal continentale (un Piano europeo per l’Occupazione) il quale stanzi almeno 1.000 miliardi di euro con risorse pubbliche nuove ed aggiuntive rispetto a quelle già stanziate (diversamente da quanto previsto dal cosiddetto «Piano Juncker»), per dare occupazione a 5-6 milioni di disoccupati o inoccupati (di cui un milione in Italia): tanti quanti sono quelli che hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi; definendo una politica industriale a livello europeo; dando priorità a interventi che rispettano il diritto ad un ambiente sano e integro, al contrario di quanto fanno molte grandi opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione; agevolare la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili; creare un quadro normativo europeo armonico adatto a favorire un’agricoltura biologica e multifunzionale, investire risorse nel riassetto idrogeologico dei territori, la valorizzazione non speculativa del patrimonio artistico, il potenziamento dell’istruzione e della ricerca, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la riqualificazione delle città, l’efficienza energetica degli immobili, l’innovazione tecnologica, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, rinnovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese, e altro);
a sostenere, inoltre: a) l’attuazione di una dimensione sociale dell’Unione europea, incluso un meccanismo di reddito minimo garantito e un regime di indennità minima di disoccupazione per l’area dell’euro; b) l’inclusione del meccanismo europeo di stabilità (MES) nel diritto dell’Unione e un nuovo approccio nei confronti degli eurobond; c) una capacità di bilancio dell’area dell’euro in particolare per finanziare azioni anticicliche, riforme strutturali o parte della riduzione del debito sovrano;
in relazione al negoziato TTIP:
a non dare seguito come Italia, in sede di Consiglio europeo, ai successivi round del «Transatlantic Trade and Investment Partnership» in virtù del fatto che i futuri accordi commerciali non potranno garantire gli standard europei in materia ambientale, agroalimentare, sociale e di tutela della salute anche in relazione alle disposizioni relative alla protezione degli investitori esteri della cosiddetta clausola Investor-state dispute settlement – ISDS – che garantirà, così com’è concepita, maggiori diritti ad investitori esteri a scapito di quelli nazionali, non producendo alcun significativo moltiplicatore economico nel «periodo di transizione» quantificato in 10-20 anni, il quale genererebbe un misero rapporto in termini di prodotto interno lordo tra lo 0,3 per cento e l’1,3 per cento; e, da ultimo, le piccole e medie imprese non avrebbero alcun vantaggio in ragione della struttura socio-produttiva del Paese che consentirebbe, di fatto, un favore commerciale e competitivo solo per quelle 10 multinazionali che detengono il 72 per cento delle esportazioni nazionali;
in ogni caso, qualora prevalesse la scelta di proseguire il negoziato:
a impedire, in sede di Consiglio Europeo, che nel nome delle regole a protezione degli investimenti, che si tradurrebbero giuridicamente nel meccanismo di composizione delle controversie investitore-Stato, Investor-state dispute settlement – ISDS, nel contesto del TTIP, si produca un grave e irrimediabile pregiudizio costituzionale del diritto degli Stati a legiferare su materie inserite all’interno dell’accordo;
a far prevedere, in sede di Consiglio Europeo, un sistema di riconoscimento reciproco degli standard equivalenti e maggiormente tutelativi per la salute pubblica, per i prodotti agroalimentari (certificazioni di qualità) e per le piante (passaporto delle piante) e, in ogni caso:
a) a mantenere inalterato il «principio di precauzione» in vigore nell’Unione europea;
b) che l’acquis comunitario in materia di protezione dei dati personali non sia compromesso dalla liberalizzazione dei flussi di dati, in particolare nel settore del commercio elettronico e dei servizi finanziari;
c) ad evitare che le cosiddette «barriere non tariffarie» siano sacrificate: per stessa ammissione dei funzionali europei e statunitensi i quali affermano che lo scopo primario dell’accordo non è di stimolare gli scambi attraverso l’eliminazione delle tariffe tra Unione europea e USA, che sono già a livelli minimi, ma piuttosto attraverso l’eliminazione di tutte quelle barriere normative che limitano i profitti potenzialmente realizzabili dalle società transnazionali come, ad esempio, gli standard che l’Europa nel corso della sua formazione s’è data in materia ambientale, dei diritti dei lavoratori, di sicurezza alimentare, di discrezionalità degli Stati nel perseguire o no le politiche a favore degli organismi geneticamente modificati;
d) a far eseguire alla Commissione Europea studi di impatto per ciascuno Stato membro come pure una valutazione della competitività dei settori dell’Unione rispetto ai settori analoghi degli Stati Uniti;
e) assicurare una reale trasparenza dei negoziati, rendendo pubblico un numero superiore di testi via via discussi nei round, affinché ci sia un vero regime di pubblicità per i testi negoziali dell’Unione europea creando, ad esempio, delle «reading room» per i singoli Stati che consentano, ai componenti dei rispettivi parlamenti, di potervi accedere ed essere costantemente aggiornati sui negoziati in corso;
f) a impedire le violazioni che il TTIP produrrebbe nei confronti degli impegni internazionali dell’Unione Europea nel promuovere, nello scacchiere internazionale, la coerenza delle politiche di sviluppo nei confronti dei Paesi meno sviluppati;
g) a far esercitare ai parlamenti nazionali, così come previsto dai Trattati, la specifica competenza nei casi di accordi di tipo misto, aventi ad oggetto materie di competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri, per i quali è richiesta la ratifica, oltre che da parte della Unione europea, anche da parte degli Stati membri;
in relazione all’agenda digitale, ad adoperarsi presso le competenti sedi europee affinché:
a) nell’iter di implementazione della strategia unica del mercato digitale, venga adottato un approccio basato sull’evidenza, la crescita economica e l’aumento dell’occupazione tenendo in debito conto le specificità del settore cinematografico e audiovisivo;
b) sia incoraggiata la formazione di un quadro politico dell’Unione che sostenga la creatività, promuova gli investimenti nel settore della produzione e distribuzione di contenuti creativi in Europa e garantisca un compenso equo ed adeguato a tutti i relativi titolari di diritti e soggetti coinvolti;
c) venga definito quanto prima un quadro normativo di armonizzazione fiscale che allinei le aliquote IVA dei prodotti digitali a quelle dei loro corrispettivi materiali ed in particolare nell’ipotesi dell’e-book;
d) sia assicurato un coordinamento più efficace dello spettro radio e la definizione di criteri comuni a livello dell’Unione europea per l’assegnazione dello spettro a livello nazionale;
e) si intervenga vigorosamente sul fronte dell’alfabetizzazione digitale e dell’inclusione digitale anche attraverso il finanziamento di nuovi programmi europei tesi ad introdurre nuove modalità didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado e soluzioni intelligenti basate sulle telecomunicazioni per affrontare le grandi sfide del futuro come la riduzione dei consumi energetici, il miglioramento delle condizioni di vita dei pazienti e dei disabili (e-health), l’utilizzo dei servizi digitali pubblici (e-government);
f) sia aumentato il plafond degli stanziamenti su ricerca e innovazione nel settore delle telecomunicazioni ed utilizzato lo strumento dell’equity-crowdfunding come fonte di cofinanziamento dei progetti europei per lo sviluppo;
in relazione al rapporto tra l’Unione europea e il Regno Unito:
ad adoperarsi, nell’ambito della discussione sulla posizione recentemente emersa nel Regno unito sul proprio rapporto con l’Unione europea, affinché prevalgano le ragioni per un rafforzamento complessivo dell’Unione che ne porti ad un livello superiore l’unità sociale, politica ed economica attraverso una profonda ridefinizione delle regole e dei trattati che consentano all’Europa di dare risposte unitarie e condivise sui temi della crescita, del fenomeno immigratorio, della sicurezza cancellando le nefaste politiche basate sull’austerità e sugli interessi primari della finanza a scapito del benessere dei popoli ed evitando risposte frammentarie e unilaterali dei vari stati soprattutto sull’aggravarsi del fenomeno della pressione migratoria nel Mediterraneo determinato dal persistere di situazioni di conflitto, di persecuzione, dalla fame e dalla povertà.
(6-00150) «Scotto, Palazzotto, Kronbichler, Fratoianni, Marcon, Melilla, Pellegrino, Zaratti, Pannarale, Nicchi, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Paglia, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaccagnini».
Risoluzione respinta
Fonte: http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_17/showXhtml.Asp?idAtto=37942