Atto Camera
Presentato da SCOTTO Arturo
Mercoledì 18 marzo 2015, seduta n. 394
Ambito di interesse: Consiglio Europeo 19-20 marzo 2015
La Camera,
sentite le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in merito alla riunione ordinaria del Consiglio dell’Unione europea del 19 e 20 marzo 2015 il cui ordine del giorno provvisorio prevede i seguenti punti:
Unione dell’energia: politiche energetiche e climatiche per ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibile e gas e per produrre energia sicura, sostenibile e a prezzo accessibile all’interno dell’Unione europea;
definizione degli orientamenti sugli obiettivi del vertice del partenariato orientale, che si terrà a Riga il 21 e 22 maggio 2015; relazioni con la Russia e situazione in Ucraina; situazione in Libia e relative implicazioni per la sicurezza dell’Unione europea;
scambio di opinioni sulla situazione economica e conclusione della prima fase del semestre europeo 2015; orientamenti agli Stati membri per l’elaborazione dei programmi nazionali di riforma e dei programmi di stabilità e convergenza; fare il punto sui progressi relativi al Fondo europeo per gli investimenti strategici e sullo stato dei lavori dei negoziati con gli Stati Uniti sul partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP);
premesso che:
in relazione agli ulteriori orientamenti in vista di un’unione dell’energia:
si è nel pieno del percorso verso il nuovo accordo globale sul clima che dovrà essere approvato dalla 21a Conferenza delle Parti a Parigi nel dicembre 2015, un appuntamento decisivo per tentare di «invertire la rotta», e con essa il destino del nostro pianeta;
il 25 febbraio scorso, la Commissione europea ha presentato la strategia per l’Unione europea dell’energia;
la proposta di una Unione dell’energia si basa – come sottolineato dalla stessa Commissione – sui tre obiettivi della politica energetica dell’Unione europea: sicurezza dell’approvvigionamento, sostenibilità e competitività. Questi obiettivi si raggiungerebbero principalmente attraverso la sicurezza energetica; il mercato interno dell’energia; l’efficienza energetica; la decarbonizzazione dell’economia; la ricerca, l’innovazione e la competitività;
l’Unione europea è il primo importatore di energia al mondo: importa il 53 per cento del proprio fabbisogno con un costo di circa 400 miliardi di euro all’anno; inoltre il 75 per cento del parco immobiliare europeo è a bassa efficienza energetica e il 94 per cento dei trasporti dipende dai prodotti petroliferi, di cui il 90 per cento sono importati;
diversi obiettivi del documento sull’Unione dell’energia sono condivisibili. Bisognerà vedere se l’«Energy Union» sarà un ennesimo elenco di buoni propositi, o riuscirà a produrre una nuova e più efficace legislazione su clima ed energia. Il rinnovamento del settore elettrico basato sulla piena sostenibilità deve rappresentare un’opportunità per l’economia europea, in termini di sviluppo economico, di occupazione, di sicurezza energetica, di sicurezza degli approvvigionamenti; è senz’altro positivo l’obiettivo, indicato nella proposta per un’Unione energetica, di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili, e puntare sulla sostenibilità delle fonti energetiche, attraverso le energie rinnovabili e l’efficienza energetica. Nonostante ciò si evidenzia che:
a) riguardo alla tassazione sull’energia, la strategia per l’Unione dell’energia non propone nulla a livello dell’Unione europea. Ci si limita a invitare gli Stati membri a considerare la tassazione dell’energia sia a livello nazionale che europeo, trovando un equilibrio tra eventuali incentivi per un uso più sostenibile dell’energia, e la necessità di garantire tariffe energetiche concorrenziali. Non si prevede nulla, laddove invece sarebbe necessario individuare nuove forme di fiscalità ambientale che rivedano le imposte sull’energia e sull’uso delle risorse ambientali nella direzione della sostenibilità e la decarbonizzazione. Si ricorda come lo studio dell’Agenzia europea per l’ambiente, «Environmental Tax Reform in Europe: implications for income distribution and opportunities for eco-innovation» abbia messo in evidenza come i governi potrebbero diminuire le tasse sul reddito, spingere l’innovazione e tagliare le emissioni introducendo tasse specifiche e molto ben mirate sulle singole attività inquinanti, reinvestendo il ricavato nel far crescere l’economia del futuro attraverso le nuove fonti e il risparmio energetico, i mezzi alternativi, e la riconversione delle linee di produzione nella direzione di nuovi prodotti a minore impatto ambientale;
b) non vi è alcun riferimento alla necessità di uscire definitivamente dal carbone, il combustibile più nocivo per l’ambiente e la salute pubblica, ma si fa riferimento alla necessità di sostenere la CCS (Carbon Capture and Storage) per la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Sotto questo aspetto, va evidenziato che seppure la CCS consente di «ridurre il danno» relativamente alle emissioni di CO2 prodotte dall’uso del carbone, la tecnologia CCS su cui si vuole investire è alquanto controversa, sia per i costi che comporta, sia per la sua efficacia e sicurezza. Una soluzione tanto controversa che dopo decenni durante i quali la CCS è stata presentata come la via per bruciare senza danni climatici i combustibili fossili, nel mondo di impianti di questo tipo ce ne sono solo 12 e 8 in costruzione, per una cattura annuale di una cinquantina di milioni di tonnellate di CO2. Visto che le attività umane rilasciano circa 35 miliardi di tonnellate di CO2 e il solo aumento di emissioni di CO2 fra il 2011 e il 2012 è stato di circa 400 milioni di tonnellate, appare verosimile che prima che il contributo di queste tecnologie abbia conseguenze positive per il clima, il carbone sarà esaurito;
c) riguardo alle proposte della Commissione per sostenere la povertà energetica e la vulnerabilità dei consumatori, la stessa scheda informativa sull’Unione dell’energia riporta che «qualora sia necessario proteggere i consumatori vulnerabili mediante politiche sociali (…) è preferibile garantire questa tutela mediante il sistema generale di previdenza sociale. Se invece si intende tutelare questi consumatori mediante il mercato dell’energia, ad esempio attraverso una «tariffa solidale» o uno sconto sulle bollette energetiche, è importante che il sistema sia adeguatamente mirato, in modo da limitare i costi complessivi e i conseguenti costi supplementari per i consumatori che non ne beneficiano.». Questa posizione di apparente «neutralità» rispetto alle politiche che devono essere individuate dagli Stati membri e dall’Unione europea per sostenere le fasce sociali più esposte in materia di tariffe elettriche, rischia di essere inadeguata laddove le risorse degli Stati UE per le politiche sociali sono sempre più ridotte e sempre più difficilmente queste sarebbero in grado di sostenere anche la «povertà energetica» di una fascia sempre più ampia dei consumatori. Sotto questo aspetto è invece prioritario intervenire proprio su una tariffazione elettrica equa e in grado effettivamente di garantire le fasce più deboli;
d) riguardo all’efficienza energetica, la Commissione europea riconosce che gli interventi di ristrutturazione edilizia sono insufficienti, da qui la necessità di rivedere le direttive sull’efficienza energetica e sulla prestazione energetica nell’edilizia al fine di compiere ulteriori passi in avanti per garantire l’efficienza energetica degli edifici. Oggi – si sottolinea – gli investimenti nell’efficienza degli edifici sono tra i più redditizi per i cittadini e l’industria. A fronte di queste constatazioni, si evidenzia ancora di più l’inadeguatezza dell’obiettivo UE 2030 «Clima-Energia» dell’ottobre 2014 laddove viene posto un traguardo non vincolante, ma solo indicativo, di un incremento al 27 per cento dell’efficienza energetica a livello europeo. Obiettivo che, fin da subito è apparso troppo poco ambizioso. Non è infatti ipotizzabile un’uscita dalle fonti fossili senza una drastica riduzione dei consumi di energia anche attraverso una crescita dell’efficienza energetica;
circa gli obiettivi dell’Unione europea, si ricorda che nell’ottobre 2014 il Consiglio europeo ha approvato gli obiettivi UE 2030 «clima-energia»: un taglio delle emissioni di gas serra del 40 per cento rispetto ai livelli del 1990; un aumento della quota delle rinnovabili, che dovranno arrivare al 27 per cento, dei consumi finali di energia; incremento al 27 per cento del target dell’efficienza energetica a livello europeo, ridotto rispetto al 30 per cento proposto inizialmente dalla Commissione e al 40 per cento proposto dal Parlamento europeo. Unico obiettivo vincolante a livello nazionale è quello sulla riduzione della CO2, mentre gli altri due sono «indicativi». L’obiettivo sull’efficienza energetica, del 27 per cento sarà rivisto entro il 2020; obiettivi assai poco ambiziosi se si pensa che il solo obiettivo globale del + 27 per cento delle fonti rinnovabili sui consumi finali rappresenta sostanzialmente l’andamento tendenziale, e dunque ci sarebbe tutto lo spazio per un ulteriore incremento;
i Paesi europei sono responsabili di circa l’11 per cento delle emissioni di gas serra sul totale mondiale. Anche alla luce di ciò è evidente che l’obiettivo della riduzione del 40 per cento al 2030 definito dal pacchetto clima-energia dell’Unione europea, si dimostra ancora di più insufficiente se non affiancato a una efficace azione da parte dell’Europa per una reale corresponsabilizzazione degli altri Paesi verso concrete e ambiziose misure internazionali di decarbonizzazione, finalizzate alla mitigazione del cambiamento climatico;
considerato che:
in relazione ai rapporti con la Russia ed in merito alla situazione in Ucraina:
il conflitto ucraino è senza dubbio la più pericolosa crisi vissuta dall’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale;
in particolare, è pericolosa non tanto sul terreno della recrudescenza del conflitto, quanto sul suo potenziale rischio di minare la pace nel vecchio continente, finanche a provocare uno scontro globale;
le relazioni con l’Europa orientale incentrate sul piano della «sicurezza» e dominate dalla politica dell’allargamento ad Est della Nato, così come le trattative per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, sono state una scelta strategica sbagliata;
tutte le iniziative dell’Unione europea sono state caratterizzate dalla scarsa attenzione alle dinamiche interne al Paese e alla condizione dei suoi cittadini, in favore di un interesse pressoché esclusivo verso la centralità economica dell’Ucraina ed il suo ruolo strategico, principalmente a causa dei gasdotti che passano per il suo territorio;
la gestione della crisi e le conseguenti sanzioni imposte dall’Unione europea, di cui i popoli dei suoi Stati membri pagano un prezzo elevato, sono state una scelta avventata e frettolosa, troppo subordinata alle scelte dell’Alleanza Nord Atlantica e degli Stati Uniti d’America, ma anche alla propensione della Germania ad espandersi verso i mercati dell’est;
l’espressione della politica estera dell’Unione europa, la PESC – politica europea e di sicurezza comune è stata poi, una volta esploso il conflitto, totalmente assente e incapace di determinare alcun passo significativo nella direzione di un accordo tra le parti, nonostante la guerra fosse ai suoi confini; prova della pericolosità del conflitto ucraino ed al contempo della colpevole inefficacia della PESC è il rapido impegno di Paesi europei come la Germania e la Francia, i quali, anche a difesa dei propri interessi economici strategici, sono scesi in campo con le proprie forze diplomatiche per scongiurare che l’Ucraina collassi e provochi una imprevedibile guerra tra Nato e Russia;
la decisione di prorogare le sanzioni economiche alla Russia, all’ordine del giorno del Consiglio europeo, unito alla decisione di ratificare in tempi brevi l’accordo di associazione tra l’Unione europea e la Comunità europea dell’energia atomica con l’Ucraina potrebbe provocare una ulteriore recrudescenza del conflitto e far saltare il già fragile accordo di Minsk;
salvaguardare ancora una volta esclusivamente i rapporti economici fra Unione europea ed Ucraina anche in vista di una graduale integrazione del Paese nel mercato interno dell’Unione, appare una scelta sbagliata;
occorre invece una forte azione politica di tutta l’Unione europea che vada oltre gli interessi strategici di mercato, e quindi anche attraverso una voce unica e quindi un forte e rinnovato impegno dell’Alto Rappresentante per la politica europea e di sicurezza comune; ciò è necessario poiché in caso di fallimento del cessate il fuoco, ci sarebbe un’escalation militare, con gli Stati Uniti pronti ad armare lo Stato di Kiev e la Russia pronta a interpretare questa mossa come una indiretta dichiarazione di guerra;
più che puntare all’obiettivo di includere l’Ucraina progressivamente nel mercato europeo e quindi nell’Unione, si dovrebbe lavorare per una ipotesi similare al «modello finlandese» di integrazione europea che ha rappresentato un modello virtuoso di indipendenza per un Paese, come la Finlandia, a cavallo tra Europa ed area ex sovietica, caratterizzato dalla neutralità dello Stato, garantita dalla non adesione della Finlandia alla NATO e da un’adesione all’Unione europea avviata e raggiunta mantenendo ottimi rapporti di amicizia con la Russia;
osservato che:
in relazione alla situazione in Libia:
occorre definire complessivamente una politica estera europea di contrasto alla presenza e all’espansione di IS, nonché una strategia di contrasto interno al reclutamento dei cosiddetti «foreign fighters» che sia efficace non soltanto sul terreno della repressione ma anche promuovendo azioni mirate per contrastare il fenomeno dell’estremismo jihadista che partono da azioni di promozione ed inclusione sociale, come del resto affermato al punto 16 della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 2178 del 24 settembre 2014;
una azione coordinata, forte ed efficace di politica estera che tenga conto della necessità appena esposta andrebbe promossa in Siria, in Iraq ma anche in Nigeria, in Mali, in Somalia e soprattutto in Libia, che, si ricorda, rappresenta oltre che «il confine dell’Italia» anche «il confine» meridionale dell’Europa;
proprio in Libia si stanno evidenziando le gravi incongruenze e contraddizioni che accompagnarono l’operazione Odyssey Dawn che nel 2011 portò alla destituzione di Muhammar Gheddafi, ed alla disarticolazione del sistema politico ed amministrativo del Paese, che da allora vive una situazione di caos più totale; un caos che ha generato due parlamenti e due Governi; da una parte il Governo «islamico» della Tripolitania, guidato da Omar al Hassi, che controlla la maggior parte del territorio ad ovest del Paese; dall’altra il Governo «laico», guidato da Abdullah al Thani, riconosciuto dalla comunità internazionale ed espressione della Camera dei rappresentanti eletta il 25 giugno 2014, insediatosi nella Cirenaica nelle città di Tobruk e Baida, senza tuttavia riuscire mai a estendere il suo controllo sulla parte orientale del Paese;
alla luce di quanto sopra enunciato e delle conseguenze registrate l’intervento militare internazionale del 2011 è stato un grave errore che ha aperto un «vaso di pandora» di instabilità e di conflitti senza fine;
la Libia è politicamente spaccata in due e il suo territorio è attraversato da centinaia di milizie di ogni estrazione, islamiche, jihadiste e laiche, in cui agiscono a 5 gruppi principali: la coalizione «Fajr Libia» di cui fanno parte anche le «Milizie di Misurata», «Ansar al Sharia», «Consiglio Militare dei Rivoluzionari di Zintan», «Esercito Nazionale libico» ed «IS»;
nella Cirenaica, a pochi chilometri di distanza da Tobruk, c’è la città di Derna che è stata proclamata Califfato dell’IS e a cui si sono aggiunte recentemente le milizie di Ansar al Sharia, gruppo salafita fondato nell’aprile del 2012, il cui nome significa «Partigiani della legge islamica» attive nella città di Bengasi e in altri centri ad est della Libia;
l’enclave del Califfato in terra libica è stata realizzata dai militanti del Majis shura Shabab al-Islam, ossia il Consiglio della Shura per i Giovani dell’Islam guidato da Aby Nabil al Anbari, milizie riconducibili all’IS sarebbero attive anche nella città di Tripoli, nella città di Sabrata e quindi il porto di Harat az Zawiyah e in altri centri orientali urbani della Libia;
in Libia, come in tutte le aree dalla penisola arabica al Nord Africa, la strategia dello Stato Islamico appare quella di inglobare i gruppi e le milizie jihadiste attive sui territori. Una sorta di «franchising jihadista» che funziona così: l’IS mette il «brand» ma dà in gestione il terrore ai miliziani già operativi nelle sue nuove province o «wilayat»;
nei dintorni della città di Derna, vi sarebbero, sin dalle prime fasi del crollo dell’autorità centrale libica campi di addestramento per guerriglieri impiegati nei conflitti in Siria e Iraq provenienti principalmente dal Nord Africa e in particolare dalla regione dello Sahel;
la regione del Sahel è particolarmente strategica per il traffico incrociato di droga e di armi. Attraverso il Sahel, passano infatti, 20 mila armi da fuoco provenienti dalla Libia, e secondo recenti dati, passano per la regione la maggior parte delle 18 tonnellate di cocaina che giungono in Africa occidentale;
l’area è inoltre minacciata dalle violenze del gruppo terroristico Boko Haram nel nord della Nigeria, a cui sono esposti anche Niger e Ciad, e dalle crisi in Mali e nella Repubblica Centroafricana, nonché dalle minacce interne, con un numero di bambini denutriti che ha superato i 6 milioni, mentre gli sfollati sono raddoppiati nel corso dell’ultimo anno e sono attualmente 3,3 milioni;
particolarmente drammatica è la situazione in Eritrea, dove la popolazione è costretta a subire le angherie del regime di Isaias Afewerki. L’Eritrea è oggi uno degli Stati da dove partono il maggior numero di profughi che raggiungono le nostre coste. Stando ai dati diffusi lo scorso novembre dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), sono stati circa 37.000 gli eritrei che nei primi 10 mesi del 2014 hanno cercato rifugio in Europa, rispetto ai 13.000 giunti nello stesso periodo lo scorso anno;
in Libia transitano i profughi provenienti dal Corno d’Africa, dall’Africa sub sahariana, dalla Siria e dall’Iraq. Stime dei servizi segreti italiani, parlano di 600 mila stranieri presenti in Libia, mentre sarebbero 200 mila i profughi sistemati nei campi di raccolta e potenzialmente pronti a imbarcarsi sui barconi in direzione delle coste italiane. Stime non confermate provenienti da servizi segreti di altri Paesi o da osservatori presenti nell’area parlano di cifre ancor più elevate;
occorre, quindi, agire nei confronti della crisi libica e della minaccia dell’IS con decisione ma anche con prudenza, avendo contezza degli obiettivi politici e strategici da raggiungere, scongiurando in tutti i modi possibili errori come quelli commessi durante la missione ONU del 1993 in Somalia;
quello che occorre fare in Libia è innanzitutto non accendere nuovi focolai di guerra, consapevoli che occorre un approccio macroregionale per arrivare ad un negoziato che coinvolga tutti i Paesi coinvolti, a partire da Qatar, Arabia Saudita, Egitto ed altri «giocatori» che agiscono nell’area per interposta persona;
occorre poi lavorare per ricostruire un assetto «statuale» in Libia, sostenendo e rafforzando, in primis, l’iniziativa dell’inviato dell’ONU, Bernardino Leon affinché si arrivi ad un primo accordo tra le due principali parti in conflitto: il Governo di Al Thani e il Governo di Al Hassi, entrambe in queste ore impegnate in una offensiva contro le roccaforti dello Stato Islamico in Libia;
una volta mossi questi passi e solo dopo un consolidato processo di pacificazione, grazie ad un accordo tra le parti, e solo su richiesta di queste si può ipotizzare un’iniziativa di «peacekeeping», il quale ha senso se c’è un accordo di «peace» da mantenere e su cui vigilare;
le responsabilità del nostro Paese sono evidenti nella crisi libica, a partire dalla scelta di partecipare alla coalizione Odyssey Dawn, aggravate dalla circostanza che l’Italia avrebbe dovuto avere una funzione di mediazione tra le parti in conflitto, anche alla luce della storica relazione e alla attuale presenza nel Paese libico. Per cui andrebbe evitata in ogni caso la presenza di truppe italiane anche in caso di operazioni di peacekeeping, accettate da tutte le parti, puntando sugli strumenti della mediazione diplomatica e civile; tra l’altro, va tenuto presente che per consuetudine le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite tendono ad escludere la presenza di truppe di Paesi che siano state potenze coloniali nei paesi oggetto delle operazioni o abbiano combattuto in passato guerre di occupazione nelle stesse aree di intervento;
nell’immediato occorre che il Governo italiano rinunci a sbagliati e controproducenti propositi di interventi militari, che contravvengono all’articolo 11 della Costituzione, e rafforzi le misure di protezione a partire da un nuovo dispiegamento navale che abbia l’obiettivo di proteggere e soccorrere la vita dei profughi che scappano dai conflitti;
lo stesso modello che si esplicava sopra per la Libia, dovrebbe essere anche applicato alla Siria e all’Iraq, dove l’IS è ben più forte e in tante zone si combatte per «procura» con tantissimi «sponsor» e dove le già troppe armi a disposizione, spingono ad escludere ulteriori ipotesi di escalation militari;
verificato che:
in relazione allo scambio di opinioni sulla situazione economica, conclusione della prima fase del semestre europeo 2015 e in particolare alla situazione greca:
lo scorso 9 marzo si è svolta la riunione dell’Eurogruppo per il riesame degli impegni assunti dalla Grecia che si è conclusa con l’invio ad Atene di tecnici della «troika» (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) e del Fondo Salva Stati ESM, il cosiddetto «Brussels Group» al fine di verificare la congruità di tre obiettivi: la lista delle riforme, la procedura per giungere, entro fine aprile, ad un accordo tra Atene e i suoi partners per la ripresa dell’economia greca e infine, lo scambio di informazioni tra la Commissione e la Grecia sull’andamento dell’economia e il bilancio;
l’articolazione della trattativa è tale che in un primo tempo si dovrà giungere ad un accordo sulle riforme e garantire alla Grecia la liquidità necessaria per poi, dopo giugno decidere sull’avanzo primario, la ristrutturazione del debito e gli investimenti;
si va delineando, quindi, in Europa una radicalizzazione di posizioni che vedono da un lato come capofila il Ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeudle il quale non esclude più l’ipotesi di una uscita della Grecia dall’euro e dall’altro lato la posizione del Ministro dell’economia e delle finanze italiano Pier Carlo Padoan il quale sostiene che la cosiddetta «Grexit» sia un «approccio sbagliato: l’approccio giusto è una situazione difficile ma fattibile con una Eurozona più forte con la Grecia all’interno». Tra le due posizioni si situa quella del Presidente del Parlamento Martin Schulz, il quale, pur tenendo comunque il punto, si dichiara ottimista sul raggiungimento di una soluzione condivisa;
considerato, inoltre, che:
a) La questione sociale è assente nelle politiche della Troika;
nel Rapporto della Commissione Affari economici del Parlamento europeo «Sul ruolo e le attività della Troika riguardo i paesi dell’area euro oggetto di programma» di risanamento macroeconomico e finanziario, rapporto approvato il 13 marzo 2015 dal Parlamento europeo, si legge che:
il Parlamento «denuncia la mancanza di trasparenza nei negoziati relativi al memorandum d’intesa; rileva la necessità di valutare se i documenti ufficiali sono stati chiaramente comunicati ed esaminati in tempo utile nei Parlamenti nazionali e nel Parlamento Europeo e opportunamente discussi con le parti sociali. …rivela che le raccomandazioni contenute nei memorandum d’intesa sono in contrasto con la strategia di modernizzazione equilibrata elaborata con la strategia di Lisbona e la Strategia Europa 2020, rileva altresì che gli Stati membri aderenti ai memorandum d’intesa sono stati esonerati dalle procedure di resocontazione del semestre europeo, compresa la rendicontazione del quadro degli obiettivi di lotta alla povertà e di inclusione sociale… si rammarica che nei programmi per la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo sia stata inserita una serie di prescrizioni dettagliate relative alla riforma dei sistemi sanitari e a tagli alla spesa; deplora che i programmi non siano vincolati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea o dalle disposizioni dei Trattati. … deplora che le misure attuate abbiano fatto aumentare nel breve periodo le diseguaglianze in termine di distribuzione del reddito; prende atto che si è registrato un aumento sopra la media di tali diseguaglianze nei 4 Paesi; rileva che i tagli apportati alle protezioni e ai servizi sociali e l’aumento della disoccupazione a seguito delle misure contenute nei programmi atti a intervenire sulla situazione macroeconomica, nonché la riduzione delle retribuzioni, stanno provocando un aumento della povertà… pone l’accento sul livello inaccettabile di disoccupazione, disoccupazione di lunga durata e giovanile, in particolare nei 4 Stati membri nel quadro del programma di assistenza; sottolinea che l’elevato tasso di disoccupazione giovanile compromette le possibilità di sviluppo economico, come dimostra il flusso di giovani migranti provenienti dall’Europa meridionale e dall’Irlanda…»;
una denuncia che, peraltro, collima almeno in parte con quanto sostenuto dal Sottosegretario agli Affari europei, Sandro Gozi (intervista al Sole 24Ore del 14 marzo 2015), il quale sottolinea come nel semestre europeo di bilancio, primo embrione di coordinamento ex ante delle politiche economiche, la dimensione sociale sia «totalmente assente». «L’assenza della questione sociale non ci ha fatto porre la domanda se tutte le ricette messe in campo fossero sostenibili»;
b) non si parla mai dello squilibrio eccessivo delle bilance commerciali;
l’Eurogruppo è severo con chi non rispetta i parametri del patto di stabilità ed in particolare il rapporto deficit-PIL e la riduzione del debito, ma non ha detto una sola parola quando la Germania sforava il tetto dell’avanzo commerciale, quello consentito dal Patto di stabilità. La Germania lo ha sforato più volte e per ultimo l’ha sforato nel mese di dicembre scorso, arrivando ad un surplus del 7,5 per cento, mentre il patto di stabilità fissa un limite del 6 per cento. Tutti tacciono;
c) si danno fondi alle banche e non alla Grecia:
la BCE ha regalato a suo tempo un migliaio di miliardi con il piano di rifinanziamento a lungo termine alle banche private europee, per capitalizzarle e farle rifiatare, ma ci si chiede perché l’eurogruppo non voglia trovare, non voglia concedere, 7 miliardi a marzo alla Grecia per salvarla del tracollo, perché assicuri 1.000 miliardi per le banche e non 7 miliardi per il popolo greco;
d) è possibile una forma alternativa al Quantitative easing;
il Ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha recentemente proposto una forma alternativa al Quantitative easing, finanziata al 100 per cento da obbligazioni della Banca europea degli investimenti con la BCE che acquista questi bond sui mercati secondari (il cosiddetto «Piano Merkel»), chiedendo ai governi di guidare un programma per la ripresa degli investimenti. In questa ipotesi la Banca centrale europea comprerebbe un solo titolo con rating tripla A senza doversi preoccupare dei diversi titoli di stato. Si tratterebbe non di una mutualizzazione dei debiti ma delle spese per investimenti europei;
la proposta Varoufakis coglie il punto debole del QE, è infatti difficile capire come l’ampliamento della base monetaria dell’unione monetaria europea frammentata si trasformerebbe in una notevole crescita degli investimenti produttivi. Il nesso è molto indiretto. Nel «piano Merkel» tale nesso è diretto e preciso;
valutato che:
in relazione al Fondo europeo per gli investimenti strategici;
la Commissione europea il 16 novembre 2014 ha presentato una Comunicazione con cui si intende creare un piano diretto a favorire la mobilitazione nell’Unione europea di almeno 315 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi nel triennio 2015-2017, noto come «Piano Junker»;
detto piano verrà posto in essere attraverso la creazione del Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS);
il Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre 2014 ha chiesto ai legislatori dell’Unione di approvare la proposta di regolamento relativa al Fondo entro giugno 2015 di modo tale che gli investimenti si possano attivare fin dalla metà del 2015;
la ratio per la creazione del Fondo è dettata dalla necessità di rilanciare il settore degli investimenti nell’Unione europea che ha registrato un calo pari al 15 per cento circa rispetto al picco del 2007. Questo calo è particolarmente significativo in Italia (-25 per cento), Portogallo (-36 per cento), Spagna (-38 per cento) Irlanda (-39 per cento), e Grecia (-64 per cento);
è opportuno evidenziare che la proposta di Regolamento avanzata dalla Commissione europea non provvede direttamente all’istituzione del Fondo, bensì rinvia l’istituzione ad un accordo fra la Commissione europea e la BEI: ne consegue che la mera approvazione del Regolamento non renderebbe di per sé immediatamente operativo il Fondo stesso, anche a fronte del fatto che bisognerà modificare una parte della normativa europea che disciplina gli aiuti di Stato, nonché i Trattati europei nella parte in cui bisognerà apportare le dovute modifiche normative per non rendere il Piano al di fuori della cornice giuridica europea;
con riguardo al finanziamento del Fondo, in realtà con l’istituzione del FEIS si va a de-finanziare il programma «Connecting Europe Facility» che è un piano di investimenti pari a 50 miliardi di euro destinato a migliorare le reti europee di trasporto, energia e digitali. Si aggiunge, a quanto già detto, che si andranno a sottrarre dal programma «Orizzonte 2020», con un plafond di 77 miliardi di euro, una quota consistente di denaro, al più importante programma destinato alle attività di ricerca, all’innovazione tecnologica e che consente alle Università, ai Centri di Ricerca e a singoli soggetti di poter realizzare i propri progetti e mettere in pratica le proprie idee;
si segnala che l’impegno dell’Unione europea a valere sulle risorse iscritte a bilancio sarebbe pari a 16 miliardi di euro, in realtà le risorse effettivamente rese disponibili e stornate da precedenti voci di spesa, ovvero derivanti dall’utilizzo del margine di flessibilità, ammontano a 8 miliardi di euro da corrispondere entro il 2020, mentre la BEI apporterà un contributo di 5 miliardi di euro in garanzie a copertura dei rischi sugli strumenti in base al portafoglio;
in realtà la dotazione dell’istituendo Fondo è di 13 miliardi di euro a cui mancano l’erogazione di altri 8 miliardi di euro. Questi 21 miliardi di euro servirebbero per emettere obbligazioni e raccogliere fondi sul mercato per un totale di 60 miliardi di euro, capaci di generare secondo il «Piano Juncker», investimenti in progetti a lungo termine dell’importo di 315 miliardi di euro nel triennio dal 2015 al 2017;
la proposta di regolamento non prevede alcun criterio per individuare la quota parte del capitale che verrebbe conferita dagli Stati membri, essendo rimessa interamente alla discrezionalità di ciascuno Stato della scelta del quantum, non essendoci alcun elemento di certezza di effettiva disponibilità di capitale del Fondo;
la Commissione prevede poi iniziative volte a garantire che i finanziamenti aggiuntivi generati dal FEIS (nonché dai fondi strutturali) siano destinati «a progetti redditizi con un reale valore aggiunto per l’economia sociale di mercato europea». A questo scopo, si prevede l’individuazione di una riserva di progetti di rilevanza europea per 300 miliardi di euro che potrebbero usufruire delle fonti di finanziamento aggiuntive del piano;
una lista preliminare di progetti è stata predisposta dalla «task force per gli investimenti» composta da BEI e Commissione, insieme agli Stati membri, che ha già prodotto un primo rapporto, il quale individua ben 2.000 progetti in tutta l’Unione europea per un valore complessivo potenziale attorno ai 1.300 miliardi di euro;
in particolare, la task force ha predisposto una lista, a carattere meramente illustrativo delle tipologie di progetti potenzialmente finanziabili, di 44 progetti tra quelli già presentati dagli Stati membri in base a programmi precedenti, tuttavia non necessariamente finanziabili nell’ambito del Fondo;
gli economisti della Royal Bank of Scotland hanno calcolato che nell’eurozona gli investimenti siano crollati di 330 miliardi l’anno dall’inizio della crisi. Essi giudicano l’iniziativa di Juncker come sottodimensionata e tardiva. Secondo questi economisti, all’Europa servirebbero almeno 800 miliardi di euro di nuovo capitale, cioè gli investimenti persi nel corso della crisi. Ma l’area euro dovrebbe ripristinare non meno di 1.000 miliardi se consideriamo l’ammortamento e la crescita mancata tra il 2007 e il 2014, perché con la crescita, sia pure contenuta della produttività, non basta ripristinare quanto perduto per recuperare il livello di occupazione iniziale;
nonostante il capitale della BEI sia stato aumentato di 10 miliardi nel 2012, i Paesi del Sud Europa, che pure hanno diligentemente sottoscritto le loro quote, non hanno avuto in cambio sostanzialmente nessun vantaggio, dal momento che gran parte dei fondi raccolti sono andati a finanziare progetti di Paesi quali la Germania;
gli investimenti da finanziare – essenzialmente infrastrutture – siano in grado di produrre, in ipotesi, un reddito sufficiente a remunerare gli investitori privati (banche) che dovrebbero partecipare all’operazione. Ciò significa che i progetti eventualmente finanziabili si riducono drasticamente di numero, restando escluse tutte le opere pubbliche non suscettibili di produrre un reddito direttamente quantificabile (per esempio quelle relative al recupero del territorio), mentre quelli che verranno accettati potrebbero tranquillamente trovare finanziamenti direttamente sul mercato. In sintesi, la proposta appare per molti aspetti come una sostanziale «presa in giro». Già 300 miliardi di euro sono meno della metà di quanto servirebbe a rilanciare l’economia europea. Il fatto poi che debbano essere finanziati sul mercato e non in disavanzo secondo criteri di redditività privati conferma che non la crescita ma l’ossessione contabile dei Paesi nordici continua ad essere la vera bussola che orienta le scelte di Bruxelles;
c’è il rischio che la selezione dei progetti, ove fondata soprattutto sulla valutazione della redditività, finisca per finanziare interventi che sarebbero stati comunque realizzati, anche senza il sostegno del FEIS, negando in tal modo in misura significativa l’addizionalità dei 315 miliardi che si suppone il Piano mobiliti;
il piano dovrebbe soprattutto intervenire nei Paesi con maggiore difficoltà di reperimento di risorse per investimenti, essendo inappropriata la logica del giusto ritorno dei contributi nazionali al FEIS;
ulteriormente considerato che:
in relazione allo stato dei lavori dei negoziati con gli Stati Uniti sul partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP)
l’ottavo round di negoziati che si è tenuto a Bruxelles dal 2 al 6 febbraio ha avuto come obiettivo «intensificare il confronto» tra l’Unione europea e gli Usa. Durante l’incontro negoziale sono stati annunciati ulteriori due tornate di negoziati entro l’estate;
nonostante la segretezza e la riservatezza rispetto ai contenuti degli incontri negoziali l’unica cosa che si sa, come rileva l’europarlamentare dei Verdi Molly Scott Cato sul The Guardian del 4 marzo scorso, «è che il 92 per cento (degli incontri negoziali) ha coinvolto i lobbysti delle multinazionali»;
in particolare delle 560 lobby incontrate dai promotori dell’accordo, 520 appartenevano al mondo del commercio e della finanza e solo 26 rappresentavano gruppi di pubblico interesse;
il 7 gennaio 2015 la Commissione ha pubblicato otto documenti del Ttip. Lo ha fatto dopo che l’Ombudsman, il garante europeo dei diritti dei cittadini, ha ricevuto a novembre 2014 più interrogazioni di gruppi parlamentari e sindacati con la richiesta di maggiore trasparenza;
il Presidente del Consiglio Renzi ha recentemente detto: «Sull’accordo Ttip c’è un appoggio totale e incondizionato da parte del Governo italiano. Si tratta di una scelta strategica e non è solo un accordo di libero scambio come altri»;
375 organizzazioni europee della società civile hanno lanciato un appello al Parlamento europeo affinché si blocchino i negoziati TTIP, dove si chiede, tra le altre cose, che si rendano pubblici tutti i documenti relativi ai negoziati TTIP, incluse le bozze dei testi consolidati e si avvii un processo democratico che permetta un’analisi puntuale ed una valutazione dei testi negoziali e che coinvolga il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali,
impegna il Governo:
in relazione agli ulteriori orientamenti in vista di un’unione dell’energia:
a farsi promotore affinché l’Unione europea riveda i target UE 2030 «Clima-Energia» in vista della 21a Conferenza delle Parti a Parigi nel dicembre 2015, prevedendo tre obiettivi vincolanti per tutti gli Stati membri: il taglio del 55 per cento delle emissioni di CO2, il raggiungimento di una quota pari ad almeno il 45 per cento di energia da fonti rinnovabili ed ad almeno il 40 per cento di efficienza energetica; ad attivarsi in sede di Unione europea affinché l’accordo globale sul clima, che dovrebbe siglarsi nell’appuntamento di dicembre 2015 a Parigi, preveda un protocollo ambizioso e soprattutto vincolante per permettere di raggiungere l’obiettivo di due gradi di riduzione del clima globale; ad attivarsi in ambito UE, anche implementando in tal senso la strategia per l’Unione europea dell’energia, affinché:
1) gli Stati membri adottino opportune forme di fiscalità ambientale che rivedano le imposte sull’energia e sull’uso delle risorse ambientali nella direzione della sostenibilità, anche attraverso la revisione della disciplina delle accise sui prodotti energetici in funzione del contenuto di carbonio (carbon tax), al fine di accelerare la conversione degli attuali sistemi energetici verso modelli a emissioni basse o nulle, con particolare riferimento alle fonti rinnovabili;
2) vengano rapidamente ridotti e quindi azzerati, i sussidi e i finanziamenti pubblici alle fonti fossili climalteranti che vengono elargiti annualmente, in particolare a partire da industrie del carbone, petrolio e gas;
3) a garantire, nell’ambito degli interventi comunitari per sostenere la povertà energetica e la vulnerabilità dei consumatori, una tariffazione elettrica equa e in grado di garantire le fasce più deboli dei consumatori;
in relazione ai rapporti con la Russia ed in merito alla situazione in Ucraina:
ad adoperarsi per evitare ogni altra precipitazione bellica della crisi ucraina, promuovendo in sede di Unione europea una soluzione diplomatica che coinvolga tutte le parti in conflitto e contribuisca a consolidare l’accordo di Minsk dello scorso 12 febbraio;
a promuovere una iniziativa in sede europea affinché si alleggeriscano significativamente le sanzioni dell’Unione europea alla Federazione russa;
a promuovere al Consiglio europeo iniziative per garantire che non vi sia alcuna sovrapposizione, ruolo e partecipazione della NATO alla crisi ucraina, impedendo qualsiasi ipotesi di riarmo occidentale dell’Ucraina;
ad invitare il Consiglio europeo a farsi carico di un lavoro di mediazione diplomatica che faciliti la ricerca di una soluzione pacifica della crisi ucraina, esortando ad un ruolo maggiore dell’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea affinché si garantisca l’integrità territoriale dello Stato ucraino ed il rispetto della sua sovranità in quanto principio internazionale inviolabile, nel rispetto della sicurezza della popolazione civile, ma che promuova la neutralità dell’Ucraina sul «modello finlandese»;
in relazione alla situazione in Libia:
a farsi promotore di un impegno nell’ambito della PESC a non prevedere o paventare alcun tipo di intervento militare in Libia;
a promuovere attraverso il Consiglio europeo iniziative e soluzioni di carattere politico, diplomatico e negoziale;
a proporre al Consiglio europeo una Conferenza internazionale, da tenersi in Italia, finalizzata a stabilizzare la Libia e tutta la regione attraverso la partecipazione di tutti gli attori «internazionali ed europei» dei rappresentanti tribali delle diverse regioni libiche e nord africane;
a lavorare con gli altri partner europei per ricostruire un assetto «statuale» in Libia, sostenendo e rafforzando, in primis, l’iniziativa dell’inviato dell’ONU, Bernardino Leon, affinché si arrivi ad un primo accordo tra le due principali parti in conflitto: il Governo di Al Thani e il Governo di Al Hassi;
a promuovere al Consiglio europeo una iniziativa per un accordo tra le parti, per la costruzione di un processo di pacificazione che, solo su richiesta delle parti in conflitto e in accordo tra di esse, possa prevedere iniziative di peacekeeping che contribuisca alla ricostruzione di una cornice di «governo» del Paese, tramite un processo di consultazione largo, aperto, e politiche di equa redistribuzione delle royalties petrolifere;
a impegnarsi per promuovere, insieme agli altri partner europei e alle Nazioni Unite una conferenza macroregionale per arrivare ad un negoziato che coinvolga tutti i Paesi coinvolti, a partire da Qatar, Arabia Saudita, Egitto ed altri «giocatori» che agiscono nell’area mediorientale anche per interposta persona;
ad applicare e a promuovere in sede europea il blocco dei flussi finanziari e delle forniture di armamenti che sostengono IS e le milizie delle varie fazioni negli scontri;
a chiedere ai Ministri degli affari esteri dei Paesi europei di presentare richiesta presso la Corte penale internazionale dell’Aia di avviare un processo nei confronti di Abu Backr Al-Baghdadi affinché sia chiamato a giudizio come responsabile del sedicente «Stato Islamico» insieme agli esecutori e finanziatori dei crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra, così come previsto nello Statuto della stessa Corte;
a chiedere al Consiglio europeo di riattivare in tempi rapidi l’operazione «Mare Nostrum» che abbia il duplice obiettivo di soccorrere i profughi che scappano dai conflitti in Siria, Afghanistan, Iraq, Eritrea attraverso la Libia e di sorvegliare le coste dalle minacce del terrorismo jihadista e allo stesso tempo aprire, ricorrendo all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR), canali umanitari dai Paesi confinanti la Libia;
in relazione alla situazione in Grecia:
a chiedere l’inserimento all’ordine del giorno del Consiglio europeo della questione greca;
a non demandare le proprie posizioni ufficiali alle sole dichiarazioni giornalistiche e a dare più coerenza alle sue stesse affermazioni contrarie alle politiche dell’austerità, per aiutare la Grecia a sostenere le sue ragioni presso l’Euro gruppo, per permettere al Governo Tsipras di affrontare e gestire una delicatissima condizione economica e sociale, che rischia di avere anche pesanti ripercussioni sull’insieme dell’Europa;
a sostenere il neo-governo greco nei negoziati di ristrutturazione del debito sovrano, e nella proposta di swap dei titoli greci con nuovi bond, per consentire al Governo greco di rispettare nella sostanza gli impegni esistenti al tempo stesso creando uno spazio fiscale sufficiente per aumentare i redditi dei settori della popolazione ridotti in miseria;
ad appoggiare le posizioni del Governo greco in merito all’allentamento dei rigidi parametri imposti dalle regole del fiscal compact, assumendo una posizione netta e priva di ambiguità nel voler mettere realmente in discussione i parametri imposti dalle politiche di austerity;
a sostenere nelle sedi europee l’esigenza di un riequilibrio delle bilance commerciali da parte dei Paesi in eccesso di avanzo, sviluppando i consumi interni e il mercato interno, in modo tale da ottenere un riequilibrio della realtà economica alla dimensione europea;
a valutare insieme agli altri Paesi dell’Eurozona, la fattibilità e l’efficacia della proposta del Ministro Varoufakis in merito al cosiddetto «Piano Merkel» al fine di sostenere un rilancio effettivo dell’economia europea;
a proporre in tutti gli ambiti della governance europea, un Green New Deal continentale (un piano europeo per l’occupazione) il quale stanzi adeguate risorse pubbliche nuove ed aggiuntive rispetto a quelle previste nel cosiddetto Piano Juncker, che di fatto non vi sono, al fine di creare occupazione per 5-6 milioni di disoccupati e/o inoccupati, di cui un milione in Italia, che rappresentano la totalità di chi ha perso il lavoro dall’inizio della crisi e definendo una politica industriale a livello europeo;
in relazione al Fondo europeo per gli investimenti strategici:
ad avanzare la proposta per un maggiore controllo democratico sul FEIS, anche con riferimento alla scelta di progetti da finanziare;
a proporre che sia demandata alla sede politica la definizione della priorità tra i progetti, sulla base di «ammissibilità» operata in sede tecnica;
ad impegnarsi affinché il «piano Juncker» sostenga prioritariamente investimenti nei Paesi in maggiori difficoltà e affinché la selezione dei progetti non pregiudichi i Paesi più piccoli;
in relazione allo stato dei lavori dei negoziati con gli Stati Uniti sul partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP):
a chiedere in sede europea che tutti i documenti relativi ai negoziati TTIP, incluse le bozze dei testi consolidati, siano resi pubblici per permettere un dibattito pubblico aperto e un esame critico sul TTIP;
a proporre con forza l’apertura di un processo democratico che permetta un’analisi puntuale ed una valutazione dei testi negoziali e che assicuri che le politiche adottate siano nel pubblico interesse; che coinvolga il Parlamento europeo e venga dibattuto nei parlamenti nazionali e che includa le organizzazioni della società civile, i sindacati e i gruppi portatori dei diversi interessi (stakeholders);
ad impegnarsi affinché qualunque disposizione che includa meccanismi di risoluzione di controversie investitore-stato (Investor State Dispute Settlement – ISDS) sia tenuta fuori dai negoziati;
a ribadire che gli standard dell’Unione europea (sociali e lavorativi, la tutela dei consumatori e della salute, la cura dell’ambiente inclusa la rigenerazione delle nostre risorse naturali, il benessere animale, gli standard di sicurezza alimentare e le pratiche agricole ambientalmente sostenibili, accesso all’informazione ed etichettatura, cultura e medicina, regolamentazione del mercato finanziario così come la protezione dei dati, la neutralità della rete e altri diritti digitali) siano rispettati e non «armonizzati» al ribasso al livello del minimo comun denominatore come paventato dai negoziati in corso;
a proporre che non ci sia un’ulteriore deregolamentazione e privatizzazione dei servizi pubblici;
ad affermare in sede di Consiglio europeo che le autorità pubbliche devono mantenere il potere politico e le strutture necessarie per proteggere certi settori sensibili e salvaguardare standard importanti per la qualità della vita;
ad assicurarsi che nessun accordo commerciale contenga restrizioni agli standard internazionali ed europei sui diritti umani.
(6-00121) «Scotto, Palazzotto, Fratoianni, Kronbichler, Pellegrino, Zaratti, Pannarale, Marcon, Melilla, Nicchi, Matarrelli, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Paglia, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaccagnini».
GOZI SANDRO – PARERE GOVERNO NON ACCOLTO IL 18/03/2015 PARERE GOVERNO IL 18/03/2015 DISCUSSIONE CONGIUNTA IL 18/03/2015 DISCUSSIONE IL 18/03/2015 RESPINTO IL 18/03/2015 CONCLUSO IL 18/03/2015 NON ACCOLTO PARERE GOVERNO DISCUSSIONE CONGIUNTA DISCUSSIONE RESPINTO CONCLUSO
Fonte: http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_17/showXhtml.Asp?idAtto=33666