Atto Camera
Presentato da: SCOTTO Arturo
Venerdì 27 febbraio 2015, seduta n. 383
Ambito d’interesse: intervento militare, PESC, guerra
La Camera,
premesso che:
sentite le comunicazioni del Ministro degli esteri e della cooperazione internazionale sulla politica estera del Paese;
tali comunicazioni rappresentano un atto di estrema rilevanza ai fini della definizione degli interventi di politica estera e delle proposte da portare nei consessi internazionali cui il nostro Paese prende parte;
il conflitto ucraino è senza dubbio la più pericolosa crisi vissuta dall’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale;
in particolare, è pericolosa non tanto sul terreno della recrudescenza del conflitto, quanto sul suo potenziale rischio di minare la pace nel vecchio continente, finanche a provocare uno scontro globale;
l’atteggiamento europeo di puntare sul «muro contro muro» con Mosca è apparso totalmente sbagliato e noncurante degli storici errori commessi dall’Unione a partire dagli anni ’90 che hanno portato in sequenza a conflitti, aperture diplomatiche, minacce reciproche e logoramento delle relazioni;
la partita geopolitica è stata giocata principalmente sul terreno della «sicurezza» e la mossa principale dell’allargamento ad Est della Nato e le trattative per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, riassumibili nella scarsa attenzione alle dinamiche interne al Paese e alla condizione dei suoi cittadini, in favore di un interesse pressoché esclusivo verso la centralità economica dell’Ucraina ed il suo ruolo strategico, a causa dei gasdotti che passano per il suo territorio sono state una scelta strategica sbagliata così come la gestione della crisi e le conseguenti sanzioni, di cui l’Europa e i suoi Stati membri pagano un prezzo elevato;
l’Unione europea è stata in questi mesi incomprensibilmente troppo subordinata alle scelte dell’Alleanza Nord Atlantica e degli Stati Uniti d’America e l’espressione della sua politica estera, la PESC – politica europea e di sicurezza comune è stata totalmente assente e incapace di determinare alcun passo significativo nella direzione di un accordo tra le parti, nonostante la guerra fosse ai suoi confini;
prova della pericolosità del conflitto ucraino ed al contempo della colpevole inefficacia della PESC è il frettoloso impegno di Paesi europei come la Germania e la Francia, i quali sono scesi in campo con le proprie forze diplomatiche per scongiurare che l’Ucraina collassi e provochi una imprevedibile guerra tra Nato e Russia;
occorre che l’azione di Germania e Francia per l’immediato cessate il fuoco, sia realmente supportato da una forte azione di tutta l’Unione europea e quindi anche attraverso una voce unica e quindi un forte e rinnovato impegno dell’Alto Rappresentante per la politica europea e di sicurezza comune;
ciò è necessario poiché in caso di fallimento del cessate il fuoco, ci sarebbe un’escalation militare, con gli Stati Uniti pronti ad armare lo Stato di Kiev e la Russia legittimamente autorizzata a interpretare questa mossa come una indiretta dichiarazione di guerra;
le responsabilità dell’Unione europea appaiono aggravate dall’azione della Nato negli ultimi venti anni nei confronti dell’Ucraina e della politica di progressiva espansione ad Est che ha portato all’adesione di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia (1999), Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia (2004), Albania e Croazia (2009);
la politica dell’allargamento della Nato, mentre da un lato ha portato molti vantaggi ai membri dell’Alleanza, indubbiamente dall’altro lato ha contribuito notevolmente ad alimentare la tensione internazionale, a peggiorare le condizioni della pace, le relazioni internazionali con la Russia e ad acuire la lotta geopolitica aggravando le tensioni tra la Russia e l’Occidente;
lotta geopolitica che ha prodotto anche tensioni e minacce di intervento militare in risposta allo scudo missilistico della Nato, portando all’installazione di numerosi missili Iskander M russi lungo il confine con la Polonia e i Paesi baltici Estonia, Lettonia e Lituania;
una possibile via d’uscita alla crisi ucraina con una forte azione di politica estera dell’Unione europea può essere rappresentata dal «modello finlandese» di integrazione europea che rappresenta un possibile modello virtuoso di indipendenza per un Paese, come la Finlandia, a cavallo tra Europa ed area ex sovietica, caratterizzato dalla neutralità dello Stato, garantita dalla non adesione della Finlandia alla NATO e da un’adesione all’Unione europea avviata e raggiunta mantenendo ottimi rapporti di amicizia con la Russia;
oltre ad una azione immediata nella crisi ucraina, è necessaria altresì una politica estera efficace ed effettiva dell’Unione europea, improntata sul rafforzamento della capacita degli strumenti di prevenzione diplomatica, mediazione e gestione non violenta dei conflitti, sulla scorta di quanto previsto dalla European Security Strategy (la cosiddetta dottrina Solana) a maggior ragione a fronte delle nuove modalità di conflitti, da quelli asimmetrici a quelli che rievocano scenari da guerra fredda, e che richiedono l’adozione di una dottrina di «neutralità attiva» e di rafforzamento delle capacità di intervento civile, politico e di mediazione e dissuasione «politica», anche considerato il numero dei conflitti che vanno espandendosi sempre di più ai confini del continente;
da decenni ormai il Medio Oriente è sconvolto da guerre e conflitti, in un contesto che a partire dall’intervento internazionale contro l’Afghanistan e l’Iraq, è ora caratterizzato da uno scontro regionale per l’egemonia, sia dal punto di vista politico che non, un conflitto anche interno al mondo sciita e sunnita e tra sciiti e sunniti;
la guerra civile in Siria, con il suo tragico carico di vittime civili, l’espansione di ISIS in quel Paese ed in Iraq, il rischio di un «debordamento» in Libano, hanno contribuito al rafforzamento delle capacità militari di chi vorrebbe costruire un Califfato, in arabo il Daesh, un progetto che a macchia d’olio si espande per emulazione o per sostegno diretto, in altre aree, quali la Nigeria, il Mali, la Libia;
proprio in Libia si stanno evidenziando – a seguito dell’allarme causato dalla presenza e dall’espansione di ISIS nel Paese – le gravi incongruenze e contraddizioni che accompagnarono l’operazione Odyssey Down che nel 2011 portò alla destituzione di Muhammar Gheddafi, ed alla disarticolazione del sistema politico ed amministrativo del Paese, che da allora vive una situazione di caos più totale; un caos che ha generato due parlamenti e due Governi: da una parte il Governo «islamico» della Tripolitania, guidato da Omar al Hassi, che controlla la maggior parte del territorio ad ovest del Paese; dall’altra il Governo «laico», guidato da Abdullah al Thani, riconosciuto dalla comunità internazionale ed espressione della Camera dei rappresentanti eletta il 25 giugno 2014, insediatosi nella Cirenaica nelle città di Tobruk e Baida, senza tuttavia riuscire mai a estendere il suo controllo sulla parte orientale del Paese;
alla luce di quanto sopra enunciato e delle conseguenze registrate l’intervento militare internazionale del 2011 è stato un grave errore che ha aperto un «vaso di pandora» di instabilità conflitti senza fine;
la Libia è politicamente spaccata in due e il suo territorio è attraversato da centinaia di milizie di ogni estrazione, islamiche, jihadiste e laiche, riconducibili a 5 gruppi principali: «Fajr Libia», «Ansar al Sharia», «Consiglio Militare dei Rivoluzionari di Zintan», «Esercito Nazionale libico» ed «ISIS»;
il Governo islamico di Al Hassi, appoggiato da Qatar e Turchia, è controllato dalle milizie di Fajr Libia, un’alleanza guidata dalle milizie di Misurata della quale fanno parte anche i Fratelli Musulmani, di cui Al Hassi ne è un esponente;
il Governo di Al Thani, appoggiato da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, è controllato dalle milizie dell’Esercito nazionale libico, guidato dall’ex generale in pensione dell’esercito di Gheddafi, Khaifah Haftar, che da mesi guida l’operazione militare «Dignità» attorno alla quale si riuniscono le milizie anti-islamiste e quel che era rimasto del vecchio esercito regolare e dal Consiglio militare dei rivoluzionari di Zintan, che riunisce milizie attive fra la città di Zintan e le montagne Nafusa;
nella Cirenaica, a pochi chilometri di distanza da Tobruk, c’è la città di Derna che è stata proclamata Califfato dell’ISIS e a cui si sono aggiunte recentemente le milizie di Ansar al Sharia, gruppo salafita fondato nell’aprile del 2012, il cui nome significa «Partigiani della legge islamica» che avevano fondato il secondo Califfato nella città di Bengasi ma che sono state contrastate dalle milizie di Haftar, le quali sono riuscite a riprendere il controllo della città;
l’enclave del Califfato in terra libica è stata realizzata dai militanti del Majis shura Shabab al-Islam, ossia il Consiglio della Shura per i Giovani dell’Islam guidato da Aby Nabil al Anbari, i quali sono riusciti a conquistare parte della città di Tripoli, la città di Sabrata e quindi il porto di Harat az Zawiyah. Nei dintorni della città di Derna, vi sarebbero, sin dalle prime fasi dei crollo dell’autorità centrale libica campi di addestramento per guerriglieri impiegati nei conflitti in Siria e Iraq provenienti principalmente dai Nord Africa e in particolare dalla regione dello Sahel;
la regione del Sahel è particolarmente strategica. Attraverso il Sahel, passano infatti, 20 mila armi da fuoco provenienti dalla Libia, e secondo recenti dati, passano per la regione la maggior parte delle 18 tonnellate di cocaina che giungono in Africa Occidentale;
l’area è inoltre minacciata dalle violenze del gruppo terroristico Boko Haram nel nord della Nigeria, a cui sono esposti anche Niger e Ciad, e dalle crisi in Mali e nella Repubblica Centroafricana, nonché dalle minacce interne, con un numero di bambini denutriti che ha superato i 6 milioni, mentre gli sfollati sono raddoppiati nel corso dell’ultimo anno e sono attualmente 3,3 milioni;
particolarmente drammatica è la situazione in Eritrea, dove la popolazione è costretta a subire le angherie del regime di Isaias Afewerki. L’Eritrea è oggi uno degli Stati da dove partono il maggior numero di profughi che raggiungono le nostre coste. Stando ai dati diffusi lo scorso novembre dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), sono stati circa 37.000 gli eritrei che nei primi 10 mesi del 2014 hanno cercato rifugio in Europa, rispetto ai 13.000 giunti nello stesso periodo lo scorso anno;
in Libia transitano i profughi provenienti dal Corno d’Africa, dall’Africa sub sahariana, dalla Siria e dall’Iraq. Stime dei servizi segreti italiani, parlano di 600 mila stranieri presenti in Libia, mentre sarebbero 200 mila i profughi sistemati nei campi di raccolta e potenzialmente pronti a imbarcarsi sui barconi in direzione delle coste italiane;
occorre, quindi, agire nei confronti della crisi libica e della minaccia dell’ISIS con decisione ma anche con prudenza, avendo contezza degli obiettivi politici e strategici da raggiungere, scongiurando in tutti i modi possibili errori come quelli commessi durante la missione ONU del 1993 in Somalia;
la minaccia dell’ISIS appare reale e concreta, tuttavia in questo momento non controlla tutta la Libia e non ha intenzione di conquistare il Paese, mentre appaiono concreti i rischi che un improvvido e avventato intervento militare potrebbe creare, ossia coalizzare le milizie che sono attive nel Paese contro «l’invasore» straniero;
bisogna essere consapevoli che l’ISIS è una organizzazione irachena, sorta dai resti di alcune unità di élite delle forze militari di Saddam Hussein. Sono il prodotto della scarsa lungimiranza dell’attuale maggioranza politica sciita e della scellerata politica occidentale che in quel Paese, dopo la caduta di Saddam Hussein, ha sistematicamente vessato ed escluso dal sistema politico, vendicandosi dopo oltre quarant’anni di oppressione sunnita;
appaiono per questa ragione sbagliate e non condivisibili anche le dichiarazioni di autorevoli esponenti del Governo italiano che rischiano di alimentare tensioni nell’area, così come appare azzardata, in questo momento, una «coalizione antiterrorismo» guidata dall’ambiguo ex generale di Gheddafi, Khaifah Haftar e appoggiata da Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e altri petromonarchi del Golfo e sostenuta dai Paesi occidentali, sbagliata anche se fosse sostenuta dalle Nazioni Unite, poiché rischierebbe di spianare definitivamente la strada alle componenti più radicali della galassia salafita continuando a dar fuoco alle polveri che stanno incendiando tutto il Medio Oriente;
quello che occorre fare in Libia è innanzitutto non accendere nuovi focolai di guerra, consapevoli che occorre un approccio macroregionale per arrivare ad un negoziato che coinvolga tutti i Paesi coinvolti, a partire da Qatar, Arabia Saudita, Egitto ed altri «giocatori» che agiscono nell’area per interposta persona;
occorre poi lavorare per ricostruire un assetto «statuale» in Libia, sostenendo, in primis, l’iniziativa dell’inviato dell’ONU, Bernardino Leon (e lavorare perché sia affiancato in questo ruolo da Romano Prodi) affinché si arrivi ad un primo accordo tra le due principali parti in conflitto: il Governo di Al Thani e il Governo di Al Hassi;
una volta mossi questi passi e solo dopo un consolidato processo di pacificazione, grazie ad un accordo tra le parti, e solo su richiesta di queste si può ipotizzare un’iniziativa di «peacekeeping», il quale ha senso se c’è un accordo di «peace» da mantenere e su cui vigilare;
le responsabilità del nostro Paese sono evidenti nella crisi libica, a partire dalla scelta di partecipare alla coalizione Odyssey Dawn, aggravate dalla circostanza che l’Italia avrebbe dovuto avere una funzione di mediazione tra le parti in conflitto, anche alla luce della storica relazione e alla attuale presenza nel Paese libico. Per cui andrebbe evitata in ogni caso la presenza di truppe italiane anche in caso di operazioni di peacekeeping, accettate da tutte le parti, puntando sugli strumenti della mediazione diplomatica e civile; Tra l’altro, va tenuto presente che per consuetudine le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite tendono ad escludere la presenza di truppe di Paesi che siano state potenze coloniali nei paesi oggetto delle operazioni o abbiano combattuto in passato guerre di occupazione nelle stesse aree di intervento;
come sostenuto da Romano Prodi in una intervista di questi giorni, «Dopo Gheddafi bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo. C’erano interessi economici. Ora occorre far sì che tutti gli interlocutori si confrontino e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale»;
nell’immediato occorre che il Governo italiano rinunci a sbagliati e controproducenti propositi di interventi militari, che contravvengono all’articolo 11 della Costituzione, e rafforzi le misure di protezione a partire da un nuovo dispiegamento navale che abbia l’obiettivo di proteggere e soccorrere la vita dei profughi che scappano dai conflitti;
lo stesso modello che si esplicava sopra per la Libia, dovrebbe essere anche applicato alla Siria e all’Iraq, dove l’ISIS è ben più forte e in tante zone si combatte per «procura» con tantissimi «sponsor» e dove le già troppe armi a disposizione, spingono ad escludere ulteriori ipotesi di escalation militari;
secondo la relazione sulle esportazioni di sistemi militari, trasmessa dal Governo alla Camera dei deputati, soltanto nel 2013 l’Italia ha venduto in Medio Oriente 888 milioni di euro di armamenti. Una cifra record che ha contribuito ad infiammare la regione e a condurla nel caos, consegnando inevitabilmente una infinità di armi di ogni tipo nelle mani di milizie locali e tribali, non in ultimo a disposizione del sedicente Califfato;
è necessario che si rafforzino, con tutti gli strumenti diplomatici e della cooperazione le esperienze virtuose che hanno permesso in Siria di sconfiggere le milizie dell’ISIS nella regione del Kurdistan occidentale;
la liberazione della città di Kobane dalle truppe del Califfato non è soltanto una vittoria militare e non rappresenta soltanto un simbolo, ma ha alle spalle un modello di democrazia che deve essere supportato con ogni mezzo disponibile dalle democrazie occidentali e non;
nel novembre 2013, durante la guerra civile siriana, le enclavi curde di Kobane, Afrin e Cizre hanno costituito la regione autonoma di Rojava nel Kurdistan siriano e si sono date una costituzione ed un’organizzazione con delle istituzioni riconosciute dalla popolazione;
Kobane è il primo posto dove è partita la «rivoluzione del Rojava». Nel cantone vivono etnie diverse, non solo curdi, ma anche arabi, turcomanni, assiri, armeni e cristiani, yazidi, musulmani e la loro convivenza pacifica è il futuro dell’umanità. Kobane è una città simbolo, un modello per il futuro della Siria e per tutta l’area;
dei 525 mila civili residenti nel cantone di Kobane, solo 25 mila risiedono attualmente all’interno di Kobane. Dei rimanenti civili, 200 mila sono al momento intrappolati in Turchia e il resto è sparso in vari Paesi. Occorre l’apertura di un corridoio umanitario tra la Turchia e il Rojava per permettere il ritorno dei profughi, la fornitura di materiale medico e altri aiuti così come materiali per la ricostruzione. Allo stesso tempo occorre un impegno internazionale forte per togliere l’embargo tuttora applicato dalla Turchia e dalla regione del Kurdistan iracheno nei confronti dei cantoni democratici di Kobane, Afrin e Cizre;
il preambolo della Carta del Contratto Sociale del Rojava-Siria recita così: «Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta;
Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli;
Noi, popoli delle regioni autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale;
con questa Carta, si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione, verso una nuova società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale»;
il modello organizzativo e democratico del Rojava è un punto di partenza, per ridare speranza alle popolazioni martoriate dalla guerra e superare la logica dell’odio tribale, integralista e religioso che sta velocemente contagiando tutta la regione mediorientale;
in generale si rileva l’insufficienza della reazione della comunità internazionale di fronte al terrorismo internazionale negli ultimi 15 anni: la soluzione militare attraverso interventi, occupazioni del territorio, guerre non ha debellato il terrorismo, ma anzi ne ha moltiplicato i focolai, accentuato l’aggressività allargandone la sfera d’azione,
impegna il Governo
ad adoperarsi per evitare ogni altra precipitazione bellica della crisi ucraina, promuovendo in sede di Unione europea una soluzione diplomatica che coinvolga tutte le parti in conflitto e contribuisca a consolidate l’accordo di Minsk dello scorso 12 febbraio;
a promuovere una iniziativa in sede europea affinché si alleggeriscano le sanzioni dell’Unione europea alla Federazione russa;
ad assumere iniziative per garantire che non vi sia alcuna sovrapposizione, ruolo e partecipazione della NATO alla crisi ucraina, impedendo qualsiasi ipotesi di riarmo occidentale dell’Ucraina;
a farsi carico di un lavoro di mediazione diplomatica che faciliti la ricerca di una soluzione pacifica della crisi ucraina, sia direttamente, sia attraverso le sue rappresentanze nelle istituzioni dell’Unione europea, sia impegnandosi per un ruolo maggiore dell’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea affinché si garantisca l’integrità territoriale dello Stato ucraino ed il rispetto della sua sovranità in quanto principio internazionale inviolabile, nel rispetto della sicurezza della popolazione civile, ma che promuova la neutralità dell’Ucraina sul «modello finlandese»;
a non prevedere o paventare alcun tipo di intervento militare in Libia;
a privilegiare in ogni caso le iniziative e le soluzioni di carattere politico, diplomatico e negoziale;
a consultare preventivamente il Parlamento – anche attraverso un voto su una risoluzione di indirizzo delle iniziative italiane – sulle iniziative del Governo alla luce della circostanza che rischiano di alimentare tensioni nell’area e inutili rischi di sicurezza per il nostro Paese che così rischia di esporsi ancor di più al terrorismo jihadista molto di più di quanto non lo sia;
a lavorare per ricostruire un assetto «statuale» in Libia, sostenendo, in primis, l’iniziativa dell’inviato dell’ONU, Bernardino Leon, affinché si arrivi ad un primo accordo tra le due principali parti in conflitto: il Governo di Al Thani e il Governo di Al Hassi;
a promuovere in sede di Nazioni Unite i negoziati per un accordo tra le parti, per la costruzione di un processo di pacificazione che, solo su richiesta delle parti in conflitto e in accordo tra di esse, possa prevedere iniziative di «peacekeeping» che contribuisca alla ricostruzione di una cornice di «governo» del Paese, tramite un processo di consultazione largo, aperto, e politiche di equa redistribuzione delle royalties petrolifere;
a impegnarsi per promuovere, insieme agli altri partner internazionali e alle Nazioni Unite una conferenza macroregionale per arrivare ad un negoziato che coinvolga tutti i Paesi coinvolti, a partire da Qatar, Arabia Saudita, Egitto ed altri «giocatori» che agiscono nell’area mediorientale anche per interposta persona;
ad applicare e a promuovere in ogni sede internazionale il blocco dei flussi finanziari e delle forniture di armamenti che sostengono ISIS e le milizie delle varie fazioni negli scontri;
a chiedere ai Ministri degli affari esteri dei Paesi europei di presentare richiesta presso la Corte penale internazionale dell’Aia di avviare un processo nei confronti di Abu Backr Al-Baghdadi affinché sia chiamato a giudizio come responsabile del sedicente «Stato Islamico» insieme agli esecutori e finanziatori dei crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra, così come previsto nello Statuto della stessa Corte;
a riattivare in tempi rapidi l’operazione «Mare Nostrum» che abbia il duplice obiettivo di soccorrere i profughi che scappano dai conflitti in Siria, Afghanistan, Iraq, Eritrea attraverso la Libia e di sorvegliare le coste dalle minacce del terrorismo jihadista e allo stesso tempo aprire, ricorrendo all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR), canali umanitari dai Paesi confinanti la Libia;
a promuovere una iniziativa, anche nelle sedi internazionali, per l’apertura di un corridoio umanitario tra la Turchia e il Rojava per permettere il ritorno dei profughi, la fornitura di materiale medico e altri aiuti così come materiali per la ricostruzione e a chiedere, insieme alla comunità internazionale, alla Turchia e alla regione del Kurdistan iracheno di togliere l’embargo nei confronti dei cantoni democratici di Kobane, Afrin e Cizre. (6-00114)
Fonte: http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_17/showXhtml.Asp?idAtto=32788