Pubblichiamo un pezzo di Annamaria Rivera uscito sul suo blog su Micromega venerdì scorso.
La notte fra l’8 e il 9 dicembre, un sessantenne di origine egiziana, detto Jimmy, muore assiderato per strada a Napoli. Il mattino dell’11 dicembre, a Torvajanica, sul litorale romano, in un casolare abbandonato è rinvenuto un cadavere carbonizzato: secondo i carabinieri, è di una donna immigrata da un paese dell’Est europeo che era solita rifugiarsi lì. La sera dell’11 dicembre, un detenuto marocchino, in attesa di giudizio, s’impicca in cella nel carcere di Catanzaro. La notte fra l’11 e il 12 dicembre, dalle parti di Prima Porta, estrema periferia romana, due uomini di origine ecuadoriana, di 62 e 65 anni, muoiono intossicati dal monossido di carbonio sprigionato da un braciere acceso in casa. La notte fra il 12 e il 13 dicembre, muore nella sua abitazione, nella zona di Peretola, estrema periferia fiorentina, una donna di 45 anni di nazionalità cinese, anche lei uccisa dal monossido di carbonio, questa volta esalato da una bombola di gas.
Sei persone immigrate vittime di morte violenta in così pochi giorni non sono un fatto banale. Sono invece il tragico indizio d’una condizione di povertà ed emarginazione, aggravata non solo dalla discriminazione ma anche dalla recessione, che colpisce in modo particolarmente impietoso gli ultimi fra gli ultimi. Eppure episodi come quelli che ho raccontato di solito sono trattati dai mezzi d’informazione col minimo di rilievo, relegati in qualche scarna agenzia, spesso ignorata perfino dai giornali locali. In questi casi non troverete, ben in risalto nel titolo, nel catenaccio o nell’occhiello, il riferimento alla nazionalità delle vittime, magari ridotta a “etnia”: questa regola vale solo quando le persone immigrate sono accusate d’un crimine piccolo o grande, reale o immaginario.
Ci sono, ovviamente, delle eccezioni. Per esempio, della storia di Jimmy, morto assiderato a Napoli, qualcosa sappiamo grazie al fatto che tre giorni dopo la sua morte sarà ricordato in una conferenza- stampa di presentazione delle iniziative del Comune in favore dei senzadimora. E conosciamo qualche dettaglio della sua biografia soprattutto grazie a Fabrizio Geremicca, che ne aveva scritto l’11 dicembre sul “Corriere del Mezzogiorno.it”, riservandogli la pietas che merita, espressa con parole efficaci e rispettose:
“Come siano state le ultime ore di Jimmy la notte tra Sant’Ambrogio e l’Immacolata, sferzato dalla pioggia e dal libeccio, incapace di mettersi al riparo perché le gambe non lo sorreggevano più da tempo, nessuno potrà dirlo mai. Se sia scivolato dallo stordimento dell’alcol all’incoscienza o se, al contrario, abbia rivissuto in un attimo i suoi circa 60 anni di vita: l’Egitto di quando era bambino, il lavoro come cuoco sulle petroliere, un figlio di cui non ricordava più neppure il volto, la solitudine, l’amore per Ylenia, che è tornata alcuni anni fa in Ucraina”.
Il lavoro come cuoco sulle petroliere: basta questo particolare per intuirne la biografia e l’inesorabile caduta sociale nel paese che solo per sarcasmo può dirsi “di accoglienza”. Possiamo provare a immaginare la perdita del lavoro, l’approdo a Napoli, il peso della crisi, dello stigma e della discriminazione, la sconfitta e la vergogna all’idea di tornare in patria sconfitto, quindi lo scivolare verso l’alcol e la strada, ma anche i sussulti vitali: l’amore per Ylenia che, pure lei devastata dall’alcol, ogni giorno Jimmy andava a trovare in ospedale la volta che fu ricoverata. E le portava -racconta una volontaria a Geremicca- ora un’aranciata, ora un biscotto, quel che poteva, insomma.
E dai pochi dettagli che ci restituisce la cronaca possiamo figurarci la vita, le vite, della famiglia ecuadoriana: i due più anziani, forse fratelli, probabilmente amici, il figlio venticinquenne d’uno dei due, ora ricoverato in ospedale in condizioni gravissime, una giovane donna, forse sua moglie, e due bambine, una di quattro anni, sappiamo…Possiamo vederli stipati in quella “casa” al pianterreno, pochi metri quadrati in penombra occupati da cinque o sei letti. I due più anziani ormai rassegnati al destino di declassamento sociale, come dicono i sociologi, che di solito è riservato ai migranti; la coppia, al contrario, ancora speranzosa di un riscatto o almeno di un futuro meno cupo; le bambine ignare, come tutti i bambini, e contente del poco o del tanto che ogni giorno regala.
In assenza d’informazioni, niente possiamo supporre, invece, della donna cinese morta intossicata nella sua abitazione e di quella dell’Est, finita carbonizzata nel tentativo di rendere meno pungente il freddo di una notte polare sul litorale romano. E pochissimo sappiamo del “detenuto marocchino” che un tempo fu persona e che oggi va a raggiungere la schiera dei tanti che si son tolti la vita nelle sovraffollate e crudeli prigioni italiane: il 59° dall’inizio del 2012, secondo “Ristretti Orizzonti”. Di lui, solo le angherie patite in carcere, la desolazione e la disperazione possiamo immaginare, forse anche il panico da claustrofobia divenuto pena quotidiana: ancor più angosciosa per uno che era partito temerariamente per mare alla ricerca di spazi esistenziali più vasti di quel certo villaggio della provincia di Settat o forse di Beni Mellal, non sappiamo, in cui era nato.
Noi possiamo solo immaginare. Non ci è dato sapere, poiché le vite dei migranti sono le più irrilevanti fra le vite dei senzanome, sicché le loro morti sono leggere come piuma. La molteplicità delle persone di origine immigrata, si sa, di solito è racchiusa nella categoria stigmatizzante di “extracomunitari” (anche se vengono da un paese comunitario) oppure – se conviene, e conviene spesso – di “clandestini”. Allora, per stare al gioco mediatico: in pochi giorni sei individui della categoria “extracomunitari” sono morti di morte violenta; come avrebbe reagito l’informazione se in questo breve arco di tempo fossero morti di morte violenta sei individui altrettanto sconosciuti al grande pubblico, ma appartenenti alla categoria degli imprenditori o a quella degli alti dirigenti?