Chi si occupi sistematicamente e da lungo tempo dei ricorrenti “affaire del velo” (cui di recente si è aggiunto quello del burkini) lo sa bene: nessuna argomentazione, per quanto razionale e raffinata sia, può far cambiare idea a chi assolutizza l’hijâb – null’altro che un foulard – quale minaccia “ai nostri valori” e simbolo di oppressione e oscurantismo, senza neppure preoccuparsi di distinguere tra “veli” imposti e “veli” liberamente scelti.
In realtà, dietro una tale fissazione ideologica vi sono spesso retaggi colonialisti non elaborati (è il caso soprattutto della Francia) oppure la proiezione feticistica delle proprie inquietudini rispetto a un’alterità percepita come irriducibile, comunque retrograda. In qualche caso, le ragioni sono più oscure. In Francia, da molti anni, la filosofa “femminista” Elisabeth Badinter conduce una strenua battaglia contro il “velo”, che considera «uno stendardo politico e comunitario». Badinter è, tra l’altro, prima azionaria e presidente del Consiglio di sorveglianza di Publicis, società di pubblicità e comunicazione, terzo gruppo mondiale in questo campo. Ebbene, Publicis si distingue non solo per pubblicità sessiste, ma anche per aver firmato un contratto con l’Arabia Saudita, finalizzato a migliorare l’immagine di questo paese in Francia.
A ben riflettere e come ho scritto più volte, il “velo” è soprattutto un oggetto feticistico costruito come tale dal discorso egemonico. Se si facesse, laicamente, lo sforzo di relativizzare e comparare, contestualizzare e decostruire, ci si renderebbe conto che questo capo di vestiario –tutt’altro che estraneo alle “nostre tradizioni”– assume valenze e significati diversi secondo i contesti e secondo le donne che lo indossano: non sempre per un atto d’imperio maschile; in casi numerosi, invece, per libera scelta. La liberazione delle donne non passa forse anche per la libertà di disporre del proprio corpo e di vestire come loro aggrada?
Per quel che riguarda i paesi a maggioranza musulmana, faccio un paio di esempi, fra i tanti possibili. Come ho già ricordato altrove, in Tunisia, durante il regime di Ben Ali, l’hijâb era proibito nei luoghi pubblici, scuola e università comprese, e le studentesse “velate” erano spesso convocate e minacciate dalla polizia. Sicché dopo la rivoluzione è divenuto alla moda indossarlo, in non pochi casi insieme con la minigonna, come ho potuto constatare più volte. Quanto al Marocco, negli anni più recenti i cortei del Primo maggio a Essaouira –per citare un contesto che conosco a fondo – vedono alla testa la presenza, maggioritaria e combattiva, di giovani donne col “velo”: sono loro, precarie nei settori dell’istruzione e della sanità, che, munite di megafono, lanciano slogan e guidano il corteo.
Dunque, additare l’hijâb quale emblema dell’islamismo radicale e jihadista è del tutto arbitrario. E’ anche politicamente irresponsabile, se consideriamo il versante “di casa nostra”. Poiché può concorrere a esporre ancor di più le donne che lo indossano a discriminazioni, violenze, aggressioni – dalla connotazione sessista e razzista – già notevolmente in crescita da alcuni anni a questa parte, anche in Italia. Dopo ogni attentato di stampo jihadista, infatti, accade che a essere prese di mira siano donne “velate”. Per ricordare qualche caso italiano: dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, alcune studentesse furono aggredite, in pieno centro di Bologna, con insulti, sputi e strappo del foulard. Qualcosa di simile è accaduto ad alcune attiviste di Ravenna, appartenenti a un’associazione musulmana, femminista e antirazzista.
Ancor più miope è compiacersi – come ha fatto anche qualche femminista italiana – delle due sentenze complementari della Corte di Giustizia dell’Ue che, il 14 marzo scorso, ha dato ragione, in sostanza, ai datori di lavoro di due donne, licenziate perché indossavano il “velo”. Chiamata a pronunciarsi sui due casi, accaduti rispettivamente in Francia e in Belgio, la Corte ha stabilito, infatti, che essi non hanno violato il diritto europeo in materia di non-discriminazione.
In definitiva, le aziende private sono autorizzate a inserire nei loro regolamenti interni il divieto ai dipendenti di portare segni visibili di carattere politico, filosofico o religioso, poiché ciò non costituisce in sé «una discriminazione diretta». Il che rischia di legittimare e incrementare l’arbitrio padronale. La formula che ho citato, infatti, equivale a sostenere che sia licenziabile a buon diritto pure chi, nonostante il regolamento interno, si ostini a indossare la kippa oppure a portare una collanina o una spilla con croce, falce-e-martello, simbolo della pace e così via. E perfino chi s’ispiri nell’abbigliamento alla filosofia hippie o si presenti al lavoro con capigliatura e/o abiti in stile rasta (il rastafarismo è una religione).
Alquanto problematico e astratto è, poi, che la Corte sottolinei come legittimo che un datore di lavoro voglia mostrare ai suoi clienti un’immagine di neutralità. Esistono davvero marchi neutri? C’è da dubitarne. La neutralità, infatti, non è altro che un valore convenzionale, spesso stabilito dal mercato e costituitosi storicamente attraverso la sedimentazione di segni, anche religiosi, che nel corso del tempo sono divenuti consuetudine e norma maggioritarie.
Tentando goffamente di dissimulare il vero obiettivo, cioè le lavoratrici musulmane, la Corte finisce per violare (come ha denunciato Amnesty International) non solo il principio di non-discriminazione, ma anche uno dei capisaldi della laicità: quello della libertà di coscienza. A tutto vantaggio dell’arbitrio padronale, come ho detto, e della gazzarra islamofobica; e a svantaggio delle donne di fede o ambiente musulmani: già oggi le più penalizzate nell’accesso al mondo del lavoro.
Annamaria Rivera