“Il razzismo resiste, si mimetizza in forme nuove e dà preoccupanti segni di ripresa”: dunque è necessario continuare ad analizzarlo senza mai cedere alla tentazione di pensare di conoscerlo, e dunque di sapere come combatterlo, una volta per tutte.
Da questa premessa nasce il libro di Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli, recentemente pubblicato da Ediesse Il razzismo: una utile ricostruzione storica delle radici del razzismo moderno, indispensabile per comprendere sino in fondo i dispositivi logici e i processi cognitivi che sottendono le teorie e le pratiche razziste del nostro tempo. Riprendendo la definizione che ne danno gli autori, “una piccola bussola per l’orientamento nella battaglia, purtroppo ancora attuale, contro la violenza razzista”. In effetti il libro, grazie alla sua struttura e all’adozione di un registro di comunicazione non eccessivamente aulico, è un’utile strumento per chi combatte il razzismo quotidiano, ogni giorno.
Il libro ripercorre l’evoluzione del razzismo dagli inizi dell’età moderna ad oggi partendo da una tesi ben precisa:
“Il razzismo non è un effetto collaterale della modernità, tanto meno un suo corollario accidentale. Nella misura in cui costituisce un’efficace strategia di legittimazione del dominio e delle sue implicazioni più caratteristiche (inferiorizzazione, esclusione, discriminazione, spoliazione, persecuzione), il razzismo è un’istituzione chiave della modernità, uno dei capitoli fondamentali della sua biografia “morale e intellettuale””.
La ricostruzione della storia del razzismo moderno serve agli autori per dimostrare l’esistenza di una configurazione unitaria del discorso razzista, di una logica comune che sta alla base delle ideologie razziste, pur assumendo esse forme diverse (mimetizzazioni) nei vari contesti storici e sociali. Gli elementi costitutivi di questo dispositivo logico, secondo gli autori, sono la costruzione simbolica delle “razze”, l’istituzione di nessi psico-fisici dei quali il razzismo afferma la durata nel tempo e la trasmissione ereditaria ma anche l’impossibilità di definire a priori i gruppi umani suscettibili di razzizzazione in quanto, essendo le “razze” delle invenzioni, qualsiasi gruppo umano può essere inferiorizzato.
“Il fatto che le razze umane non esistano (in quanto realtà di fatto) non impedisce loro di esistere (in quanto creazioni simboliche)”. Gli autori si chiedono perché né la memoria storica né la scienza riescono a impedirlo e forniscono questa risposta:
“Il fatto è che la guerra tra le ideologie non si svolge in un’aula universitaria, ma su quel terreno impervio e vischioso, soggetto a ogni sorta di influenze e manipolazioni, che è il senso comune. Le ideologie si affermano (e sono capaci di suscitare senso e mobilitazione) non in quanto scientificamente fondate, ma perché capaci di rispondere a bisogni sociali concreti e diffusi”.
La ricostruzione storica proposta nel libro che attraversa la storia dell’antisemitismo, ripercorre il razzismo coloniale ottocentesco, ricorda l’evoluzione del razzismo nei confronti dei neri negli Stati Uniti e le politiche di apartheid Sud-africane, svela i germi dei nuovi razzismi dei nazionalismi europei di fine ottocento, riporta alla memoria gli orrori del nazismo e giunge alla storia Europea e italiana più recente, riesce ad esplicitare in modo efficace i dispositivi logici comuni, ma anche la ricorrenza di alcuni elementi di contesto che, pur non determinando da soli la diffusione della xenofobia e del razzismo, concorrono al suo successo.
Le “incertezze” prodotte dalla modernizzazione industriale a fine ottocento fanno da sfondo alla diffusione dell’antisemitismo in Francia in Austria, in Germania e in Russia: la pubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion (1095) dimostrò secondo gli autori come “l’odio antisemita riuscisse a cementare un blocco sociale ampio e variegato, convogliando contro gli ebrei le inquietudini e i risentimenti di ceti e soggetti politici anche molto distanti tra loro”. Allo stesso modo le “incertezze” prodotte dalla globalizzazione a fine novecento hanno favorito la comparsa di nuove forme di razzismo e xenofobia grazie al loro utilizzo strumentale da parte di partiti e movimenti politici interessati a costruire, con la creazione di nuovi capri espiatori (i rom, i migranti, gli omosessuali, i musulmani e così via), il proprio consenso.
Comuni ai diversi razzismi sono i meccanismi di inferiorizzazione, gerarchizzazione, discriminazione e persecuzione del gruppo prescelto, di volta in volta, come bersaglio. Comune (anche se spesso mascherata) la costruzione della “razza” sulla base di una connessione arbitraria tra caratteri fisici e caratteri morali che si presume caratterizzino il gruppo stigmatizzato. Il mito dell’ebreo usuraio “per natura”, autore di omicidi rituali di bambini o untore, diffuso a partire dal 1500 non è poi così diverso dal mito dello “zingaro rapitore di bambini” che continua incredibilmente a trovare un consenso ancora oggi. La giustificazione dell’enorme espansione coloniale di fine ottocento con “la volontà di estendere la civiltà a popoli arretrati e inferiori” non è poi così diversa dalle giustificazioni addotte per l’avvio delle nuove guerre “umanitarie” del nostro tempo.
La “bestiarizzazione” del gruppo inferiorizzato caratterizza il razzismo contro i neri negli Stati Uniti, le repressioni della rivoluzione algerina, l’ideologia nazista, il sessismo, ma anche molta propaganda razzista islamofoba e anti-rom degli ultimi trent’anni di storia italiana. Per altro, ci aiutano a ricordare gli autori, può poggiare su una ricca tradizione di pensiero che sin dalla fine del settecento postula un collegamento tra gli aspetti fisici e gli aspetti psichici degli esseri umani costruendo sulla loro base un sistema di gerarchizzazione e la legittimazione di differenze tra gruppi umani considerate “naturali”: da Petty a Voltaire, da Camper a Virey, da Lawrence a Lombroso, da De Gaubinau a Le Bon (l’ispiratore di Hitler).
Le teorie razziste sono oliste, essenzialiste e deterministe:
“Una ragione del successo del dispositivo razzista consiste proprio in questo: nel fatto che esso traduce in termini naturalistici caratteristiche storicamente determinate di individui e gruppi ancorando dinamiche sociali a un terreno immutabile e non soggetto a revoche di legittimazione”.
Il libro ha anche il merito di ricordare perché il mito degli “italiani brava gente” è, appunto, il frutto di una rimozione: non ha dato il proprio terribile contributo al razzismo solo il regime fascista con l’approvazione delle Leggi razziali, ma anche l’Italia risorgimentale, sebbene con un razzismo non codificato (viene ricordato l’istituto del madamato in base al quale i colonialisti italiani erano usi “affittare” le donne eritree e stringere matrimoni temporanei per poi abbandonarle al ritorno in patria) e il movimento irredentista con il suo razzismo anti-slavo. Per non parlare del razzismo anti-meridionale che trovò in Alfredo Niceforo, allievo di Lombroso, uno dei suoi più importanti teorici.
Un libro da leggere, anche sotto l’ombrellone.
Alberto Burgio Gianluca Gabrielli, Il razzismo, Ediesse, 2012