di Annamaria Rivera
“Spesso sogno la mia isola/ il mare, la montagna, i fiumi,/ il verde della foresta tropicale […]/ Ora sono una pianta sradicata“. Così scrive, nella poesia Sogno, Sunjay Gookooluk, originario delle Isole Mauritius, da ventisei anni in Italia. Condannato a sopravvivere nel nostro Paese come pianta sradicata, ora Sunjay di nuovo si aggira tra gli angoscianti recinti di sbarre del Cie di Ponte Galeria, da cui era stato liberato pochi mesi fa.
E’ con l’inganno che il 17 agosto scorso è stato sequestrato e condotto nel Cie. Lo hanno convocato presso la Questura di Roma, sostenendo che aveva da ritirare una notifica, quindi lo hanno infilato in una volante con la scusa che occorreva ‘foto-segnalarlo’. E’ stato poi trattenuto per 25 ore nei locali dell’Ufficio stranieri, dove gli hanno fatto passare una notte da clochard, privato dei farmaci necessari a contenere la malattia cronica di cui soffre, impedito di contattare chicchessia, perfino il suo avvocato. Infine, lo hanno portato di nuovo a Ponte Galeria.
E qui anche il suo secondo “trattenimento” è stato convalidato, nel corso di un’udienza-lampo viziata da pregiudizi, riferisce il suo legale, Alessandro Crasta, che intende proporre ricorso in Cassazione. Non si è tenuto conto neanche del fatto che Sunjay ha pagato oltre misura il suo debito con la giustizia, per usare una frase fatta: con otto anni di carcere (per reati legati allo spaccio di droghe) e in sovrappiù tre mesi di Cie, cui si aggiungeranno i prossimi, ancora nello zoo per umani di Ponte Galeria.
Che gli sia stata inflitta per la seconda volta la pena di un lager di Stato è cosa del tutto irrazionale e arbitraria. Sunjay, infatti, è difficilmente espellibile, se non altro perché in Italia non c’è alcuna rappresentanza diplomatica delle Mauritius. Inoltre, egli ha ottenuto l’annullamento di un decreto di espulsione e ha in itinere un ricorso al tribunale civile per ottenere la “coesione familiare” con la sorella: cittadina italiana, vedova e invalida totale, perciò bisognosa della sua assistenza.
Oltre tutto, Sunjay ha riconosciuto pienamente i propri errori e si è riscattato nel senso più profondo del termine: in carcere ha studiato, ha letto l’intera biblioteca, ha perfezionato la lingua italiana (ne parla altre cinque), ha ottenuto due diplomi, è diventato abile mosaicista, ha perfino vinto un premio letterario. E, una volta nel Cie, ha messo a frutto sapere, esperienze e competenze per svolgere spontaneamente opera di mediazione culturale fra i “trattenuti” e con parlamentari e rappresentanti delle associazioni per i diritti dei migranti. Sarà forse quest’ultimo impegno che gli si vuol far pagare?
“Sono un fantasma“, ripete spesso Sunjay. Lo dice senza drammatizzare, con l’ironia che caratterizza il suo stile. E ha ragione a dirlo: privo di passaporto, quindi di qualsiasi altro documento di riconoscimento, ancora marchiato con lo stigma della pericolosità sociale -cosa contro la quale ha presentato ricorso più volte-, sembra intrappolato in un gelido meccanismo implacabile, del tutto indifferente alla persona che egli è e ai suoi diritti elementarmente umani.
A ben riflettere, più che le metafore del fantasma e della pianta sradicata, a Sunjay si attaglia il personaggio di Josef K., protagonista del Processo di Franz Kafka: anch’egli, infatti, sperimenta la Legge come oscuro e perverso esercizio di persecuzione e sopraffazione.
Sebbene intelligente, colto e competente più di tanti cittadini italiani, Sunjay, prima d’essere di nuovo internato, coltivava aspirazioni assai modeste: liberarsi dello stigma infamante, ottenere un documento d’identità, quindi acquistare un camper in cui, soprattutto, poter leggere e scrivere in pace. Nell’attesa, non troppo fiduciosa, di ottenere il ricongiungimento familiare con la sorella italiana.
“Non vogliono integrarsi” è uno dei leit motiv di razzisti di ogni risma. I quali fingono d’ignorare che il loro Paese nega ai più vulnerabili ogni possibilità d’inserimento sociale: in tal caso, perfino l’elementare diritto a un’identità anagrafica e a un’umile dimora mobile. Né si chiedono che Legge sia quella che nega se stessa violando palesemente il principio della ri-socializzazione e riabilitazione degli ex detenuti.
Versione modificata e aggiornata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 20 agosto 2015.