All’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è stato presentato ieri il rapporto della Commissione per l’Emigrazione, Rifugiati e Sfollati a cura della senatrice olandese Tineke Strik, dal titolo “Vite perdute nel Mediterraneo: chi è responsabile?”, come conclusione di un’indagine condotta negli ultimi mesi e che riguarda una delle tante tragedie consumatesi nel Mediterraneo, avvenuta esattamente un anno fa (marzo 2011). L’indagine, avviata a seguito ad un’esclusiva del quotidiano britannico “The Guardian”, e su richiesta di 34 membri dell’Assemblea, rivela che i migranti sono morti in mare, nel tentativo di fuggire dal conflitto libico “dopo che le loro richieste di soccorso erano state ignorate, in particolare da parte di forze armate operanti nell’area”.
Questo importante documento del Consiglio d’Europa arriva nello stesso giorno in cui il Consiglio italiano per i rifugiati diffonde il suo rapporto: “Accesso alla protezione: un diritto umano”, in cui si sottolinea che “secondo le stime di Fortress Europe, dal 1998 all’agosto 2011, 17.738 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa” e che “solo nel corso del 2011, circa 2.000 tra uomini, donne e bambini sono morti nello Stretto di Sicilia: il 5% di tutti coloro che hanno tentato di raggiungere l’Europa dalla Libia”.
In questo stesso giorno, arriva anche una nuova tegola sulle politiche dell’immigrazione dell’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni: dopo la condanna della pratica dei “respingimenti” in mare da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo dello scorso 23 febbraio, giunge una nuova sanzione ancora più pesante. Il Consiglio d’Europa ha infatti addossato all’Italia le responsabilità della morte in mare dei 63 migranti nella tragedia di quel marzo 2011.
Ma ricordiamo brevemente che cosa accadde un anno fa. Il gommone, a bordo del quale viaggiavano 72 migranti di origine africana (47 cittadini etiopi, 7 nigeriani, 7 eritrei, 7 ghanesi e 5 sudanesi, fra i quali 20 donne e due bambini), era partito da Tripoli nel cuore della notte del 25 marzo, ma era entrato poco dopo in avaria. L’imbarcazione fu lasciata andare alla deriva per ben due settimane, fino a quando non fu rispedita sulle coste libiche. Nonostante le incessanti richieste d’aiuto, e il fatto che la nave fosse stata comunque identificata dalla guardia costiera europea, non fu fatto alcun tentativo di salvataggio. Sopravvissero soltanto nove persone. Quei 63 migranti (di cui 2 bambini) non sono morti a causa di un naufragio, bensì sono stati lasciati morire di sete e di fame, durante i 15 giorni alla deriva, abbandonati nelle acque del Canale di Sicilia.
Nel rapporto della Strik si legge che la tragedia nelle acque del Mediterraneo è da attribuire “a una serie di errori e un vuoto di responsabilità, condivise soprattutto tra la Marina italiana incaricata delle operazioni di ricerca e salvataggio, la Nato, le navi dei vari Paesi che transitavano quel giorno nello specchio di mare in cui si trovavano i naufraghi, le autorità libiche e i trafficanti senza scrupoli che fanno la spola tra le coste del Nord Africa e la Sicilia”. “L’Italia, come primo Stato ad aver ricevuto la chiamata di aiuto, sapendo che la Libia non poteva ottemperare ai propri obblighi – si legge ancora nel rapporto – avrebbe dovuto assumere la responsabilità del coordinamento delle operazioni di soccorso”. Come pure la Nato, non ha reagito alle numerose richieste di aiuto, anche se quella era una zona militare sotto il suo controllo, e pur avendo a disposizione a poche miglia alcune navi militari, dotate di elicotteri.
Il rapporto parla di un “fallimento collettivo” di Italia, Malta, Onu e Nato “nel pianificare gli effetti delle operazioni militari in Libia e prepararsi per un atteso esodo via mare”. Una sottovalutazione molto grave: “Queste persone non dovevano morire – si conclude -. Se i diversi attori fossero intervenuti o fossero intervenuti in modo corretto, si sarebbe potuto metterli in salvo in molte occasioni”.