“Quei lavori che gli italiani non vogliono più fare” un refrain che abbiamo sentito un’infinità di volte a proposito di assistenti familiari, di migranti piegati nei campi, di lavori indesiderati. Pedalare per chilometri sotto la pioggia, per 3 euro a consegna, di sicuro non rientra tra le mansioni che saremmo disposti ad accettare.
L’indagine sui riders condotta dal PM di Milano Paolo Storari, che il 29 maggio aveva portato al commissariamanto di Uber Italy, si è conclusa con un’accusa di caporalato in concorso per Gloria Bresciani manager della piattaforma di delivery e per Leonardo Mokini e Danilo Donnini, responsabili delle sociatà di intermediazione Fcr e Flash Road city.
«Davanti a un esterno non dire mai più “abbiamo creato un sistema per disperati”. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori» intercettata mentre rimproverava un dipendente troppo loquace, Gloria Bresciani ci fornisce le chiavi del sistema Uber Eats: una sorta di moderna schiavitù in cui a muovere le leve sono gli ultimi, presi per fame, e la loro impossibilità di dire no. E gli ultimi, salvo eccezioni, sono i migranti e i richiedenti asilo. Persone senza alternative, senza una rete di solidarietà familiare e con un accesso ai diritti sociali difficile. Tre euro a consegna indipendentemente dalla distanza da percorrere, dalle condizioni atmosferiche e dalla fascia oraria, mance sottratte, licenziamenti arbitrari e un continuo “regime di sopraffazione retributivo e trattamentale” sono alcuni dei dettagli che emergono in questo sottobosco di sfruttamento e discriminazione.
Come spesso accade a venire a galla è il marcio di un sistema che però ha radici più profonde. Il razzismo, esplicito nel caso Uber e in tutti i caporalati sparsi per l’Italia, è la punta dell’iceberg di una mentalità diffusa che, consapevolmente o no, finisce per veicolare messaggi discriminatori. O comunque per legittimarli.
Il refrain “fanno quei lavori che noi non vogliamo più fare” è molto meno innocuo di quanto possa apparire. Sintetizza l’opinione di molti italiani sul tema. Sebbene il più delle volte senza dolo, implica però una deviazione netta dal campo del diritto, e dei diritti, a quello insidioso della concessione. Possono restare perché sbrigano faccende indesiderate e sono funzionali all’ingranaggio, è l’idea che traspare in controluce. Producono Pil.
In una società proiettata verso il futuro, reticente a guardarsi indietro, in cui certi lavori sono visti con vergogna, il migrante diventa la soluzione. La toppa con cui richiudere quegli spazi che non siamo più in grado di coprire. Un tacito accordo, con rapporti di forza evidentemente sbilanciati, in cui il nostro benestare passa per la loro rinuncia, e in cui gratitudine e mantenimento dello status quo sono condizioni chiave del patto. E’ lo status stesso di migrante infatti a destinarlo al “lavoro sporco”, quasi fosse lo sbocco inevitabile e inalterabile di una condizione naturale.
Lo smantellamento sistematico di ogni diritto sul lavoro, che emerge dall’indagine sui riders e su Uber Eats, rappresenta il punto di arrivo e la messa a sistema di questa strisciante logica paternalistica che concepisce la presenza stessa del migrante come un regalo elargito dall’alto. Un regalo che va meritato. Con la rinuncia alla propria dignità e l’accettazione, senza se e senza ma, della propria subalternità.
Lorenzo Lukacs