Non si sono ancora placate le polemiche attorno al caso della “provocatoria” esclusione degli atleti africani dalla maratona di Trieste («Trieste Running Festival»), che già si accendono polemiche anche a Lucca (in realtà già in un articolo di Butac del 2018 viene riportato il caso di Lucca, dove si sosteneva l’esistenza di un divieto di iscrizione degli atleti africani, mentre si era deciso di escludere tutti i «top runner»).
Infatti, è in programma per questa domenica 5 maggio la Lucca Half Marathon che apparentemente ripropone la querelle triestina. Gli organizzatori, anche alla luce di quanto già accaduto, hanno tenuto subito a chiarire e precisare che, “così come accaduto lo scorso anno, la gara è assolutamente aperta a tutti”, ma restano anche loro “fermi nella scelta di non pagare ingaggi agli atleti africani e ai loro procuratori”. Moreno Pagnini, patron della Half marathon, ha persino dichiarato di non volersi rendere “responsabile di un mercimonio: per gli africani su mille euro di ingaggio, solo 200 va ai corridori” (qui le dichiarazioni rilasciate al quotidiano Il Tirreno).
Quindi, a Lucca sostengono la stessa logica “triestina”: nessuna preclusione sulle iscrizioni alla gara, che sono aperte a tutti, ma come già avvenuto per l’edizione 2018, non è previsto l’ingaggio di corridori africani “a pagamento”. Niente due pesi e due misure, allora? Non proprio, visto che l’organizzazione ha ricevuto la telefonata della procura federale dell’atletica, come atto dovuto per integrare il fascicolo della vicenda della mezza maratona di Trieste.
Eppure l’eclatante vicenda triestina ha fatto incetta di prime pagine, attraversando il globo intero, dal New York Times al Washington Post, dal The Guardian al Independent, passando dal Daily Mail allo spagnolo Vanguardia, da Le Monde e Le Figaro alla Deutsche Welle, fino alla Associated Press e al News.Cina. E non solo. Anche le tv: l’inglese Bbc, la Cnn International ed Euronews ne hanno parlato.
Eppure il regolamento pubblicato sul sito permette la partecipazione a tutti gli atleti stranieri (senza limitazioni geografiche), purché maggiorenni e affiliati a Federazioni riconosciute dalla Iaaf. E allora la Miramar ha pensato bene di correggere il tiro e di parlare di «inviti» che non vengono più inoltrati agli “atleti africani top” (i professionisti, ndr) che possono correre, però senza ingaggio (si sottintende). Come a dire: venite a lavorare gratis. Altro che sfruttamento!
Ma il traino mediatico mondiale ha funzionato proprio perché questa vicenda ha avuto davvero del grottesco. Il razzismo e la discriminazione si sono mescolati all’ignoranza e a dichiarazioni fuori posto. Ma per quale motivo tanto clamore, se poi alla fine gli organizzatori hanno fatto una (clamorosa è dire poco) marcia indietro?
Perché, come ricorda ASGI in un comunicato che segue l’invio di una diffida a cessare il comportamento discriminatorio, “le norme del diritto sportivo e quelle dello stesso regolamento della gara non consentono discriminazioni fondate direttamente sulla nazionalità o sul continente di provenienza, né tanto meno, direttamente o indirettamente, sull’elemento etnico-razziale”. Una tale prassi costituisce una discriminazione vietata da norme anche internazionali ed europee, “se non è sorretta da una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari tali da soddisfare un requisito di proporzionalità”. Quindi, il fine proclamato della lotta all’asserito “sfruttamento” degli atleti africani da parte delle agenzie (chissà come mai non ci si batte alla stessa maniera e con la stessa protervia contro lo sfruttamento dei lavoratori africani in agricoltura), perseguito attraverso l’esclusione tout court degli atleti africani dalle gare risulta incongruo e sproporzionato.
Il fatto è che se gli organizzatori triestini avessero davvero voluto combattere questa forma di sfruttamento (che tuttavia affligge tutti gli atleti, a prescindere dall’origine nazionale) e difendere i diritti degli atleti africani, avrebbero potuto trovare soluzioni più logiche e congrue, tutelando la dignità umana e i diritti economici di tutti gli atleti concorrenti. E’ chiaro, che se vi sono situazioni di sfruttamento, queste vanno superate intervenendo a sostegno degli sfruttati, e non precludendo loro la partecipazione a gare che, oltre a essere espressione del diritto di libertà a praticare uno sport, costituiscono una occasione per emergere e superare proprio quella situazione di sfruttamento che gli organizzatori affermano di voler contrastare. Per combattere questo ed altre forme di sfruttamento, non servono proclami, quanto piuttosto una serie di azioni mirate ed una politica di inclusione (e non di esclusione) degli atleti detti “africani”, che hanno una identità ed un percorso di vita. Ovviamente, non invitarli con il solo pretesto dello sfruttamento, ha tutto il gusto di una farsa in salsa razzista. Eppure il problema è concreto, ma la linea scelta per affrontarlo è stata del tutto sbagliata. Ma tant’è.