Grazie all’impegno della rete SenzaAsilo, rete informale nata “dal basso”, nello scorso autunno, dagli operatori dello SPRAR torinese, circa 60 migranti richiedenti protezione internazionale sono riusciti ad ottenere una regolarizzazione sul territorio italiano, dopo mesi di lavoro, incontri, mediazione e sensibilizzazione, ma soprattutto dopo essersi visti notificare doppi (se non tripli) dinieghi. E’ quanto ribadisce Monica Durigon (cooperativa Esserci) parte della rete: «Qualche risultato lo abbiamo raggiunto: una sessantina di persone oggi si vede riconosciuto un diritto. Un diritto a termine. Possiamo dirci che è un risultato che va oltre le aspettative iniziali. Grazie all’appoggio anche del mondo produttivo si sono scardinati dei pregiudizi. E con una rete non troppo strutturata abbiamo dimostrato che si può lavorare insieme come operatori di SPRAR e operatori di CAS, non per i nostri enti gestori ma per i nostri ospiti e per i cittadini. Ma adesso bisogna continuare, per le responsabilità che abbiamo verso le persone che abbiamo e che avremo in accoglienza».
E’ un importante risultato quello ottenuto, proprio perché, di fronte al grosso fenomeno dei ripetuti dinieghi che colpisce numerosi richiedenti asilo, già inseriti nel nostro tessuto sociale (magari sul punto di ottenere un contratto di lavoro o addirittura con il contratto già in mano), il rischio, se non s’interviene per tempo, è quello di condannarli all’irregolarità (tra l’altro, vanificando l’impiego delle risorse spese per accoglierli e includerli nel nostro tessuto sociale). S’incontrano, purtroppo, anche numerose persone “diniegate” in Appello, che magari hanno un posto di lavoro a tempo indeterminato: il paradosso è che rischiano di essere espulse, ma presentano il “730”. Ma l’impasse da superare è che le Commissioni Territoriali e i Tribunali chiamati a valutare le richieste di protezione, non prendono quasi mai in considerazione la situazione lavorativa del migrante, in base ad un assurdo presupposto secondo il quale l’Italia dovrebbe accogliere solo chi fugge da persecuzioni, torture o guerre, e non chi si è “integrato” e ha trovato un impiego regolare.
La rete SenzaAsilo aveva, nei mesi addietro, approvato un documento e diffuso un appello, anche con l’appoggio di un gruppo di datori di lavoro, cominciando a raccogliere casi di persone con doppio diniego ma con la concreta possibilità di un impiego regolare. Ne è nato un primo dossier, il “File 51“, come lo chiamano, cioè di 51 casi. Subito dopo, circa cento aziende torinesi hanno inviato una lettera al prefetto Renato Saccone, alla sindaca Chiara Appendino e al governatore Sergio Chiamparino, nella quale ristoratori, agricoltori, artigiani, commercianti e cooperative hanno avanzato una richiesta ben precisa: «Metteteci nelle condizioni di assumere i migranti».
L’8 marzo 2017, si è tenuto un incontro con il Prefetto di Torino, al quale ha fatto seguito una collaborazione «oltre le attese» con Prefettura e Questura. Il terreno d’incontro lo si è trovato nella formula giuridica della domanda di protezione “reiterata”. Ovvero una nuova compilazione di un modello C3 ai fini di un “riesame” e alla luce della situazione attuale del richiedente. E per 29 di loro è arrivato il riconoscimento della protezione umanitaria (la durata è due anni), forma di protezione che può essere riconosciuta a quanti non hanno diritto allo status di rifugiato. I decreti della Commissione Territoriale hanno motivato il rilascio dei permessi di soggiorno con il riconoscimento dei «percorsi di integrazione sociale attraverso gli inserimenti lavorativi». Il che non configura affatto una forzatura della legge.
La notizia si è diffusa ed è stata anche raccontata dal quotidiano La Stampa, che parla di Torino come “leader nella sfida dell’accoglienza ai migranti, concedendo il permesso di soggiorno a coloro che hanno un posto di lavoro”. Parole di incoraggiamento, in tal senso, sono giunte anche da Livia Turco: “Sarebbe importante che l’iniziativa di Torino non rimanesse un caso isolato ma ci fosse una iniziativa del Governo verso tutto il mondo delle imprese per stipulare un programma di integrazione che parta dall’apprendimento della lingua all’inserimento lavorativo. Che costituisca parte integrante del programma dell’accoglienza diffusa negli 8000 Comuni italiani. Il merito della buona pratica di Torino è l’iniziativa in sé ma anche la questione politica e culturale che pone e che invece è totalmente assente dal dibattito pubblico del nostro paese: quali politiche di integrazione? Come stiamo insieme italiani e migranti? Quale società della convivenza?”.
È, effettivamente, la prima volta che in Italia la protezione umanitaria viene riconosciuta in modo così organico come coronamento di percorsi d’inclusione sociale “virtuosi”. Ma, alla luce delle più recenti evoluzioni in materia di immigrazione (vedi le disposizioni previste dalla recente approvazione del decreto Minniti-Orlando in merito all’abolizione del doppio grado di giudizio e dell’audizione del ricorrente, che violerebbero l’articolo 111 della costituzione (il diritto a un giusto processo), l’articolo 24 (il diritto di difesa), e l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al contraddittorio)), probabilmente questo fenomeno si accentuerà ancora di più ed occorrerà, a questo punto, trovare nuove soluzioni ragionate e ragionevoli, che evitino di trasformare in “invisibili” migranti che ogni giorno si recano sul posto di lavoro e sono privi di un regolare permesso di soggiorno.