Ieri, la Capitale si è “macchiata” di razzismo. Dopo l’aggressione al cittadino rumeno in zona San Giovanni (ne abbiamo parlato qui), spostandosi dall’altra parte della città, a Boccea, davanti alla metro Battistini (luogo in cui, mercoledì scorso, un’auto ha travolto nove persone, uccidendone una) si tiene un sit-in di comitati di quartiere guidato da CasaPound, che protesta per chiedere al Campidoglio la «chiusura dei campi rom». Dietro i tricolori e le tartarughe al vento, campeggia lo striscione: “Alcuni italiani non si arrendono“. ”La situazione nel quartiere – si legge in una nota di CasaPound- è da tempo insostenibile. Casapound lo evidenzia da mesi. È arrivato il momento di promuovere una mobilitazione politica affinché questi centri di illegalità e degrado vengano chiusi”.
Nel frattempo, invece, è la strada ad essere chiusa e ben protetta dai blindati delle forze dell’ordine per tutto il pomeriggio. “Siamo qui a difendere il nostro popolo come abbiamo sempre fatto” spiega Simone Di Stefano, esponente di spicco di Cpi. “Non siamo razzisti, noi guardiamo la realtà. Bisogna aiutare prima gli italiani e poi forse gli altri. I rom stranieri vanno espulsi, quelli italiani educati. Non c’è bisogno di un fatto eclatante e si vede cosa fanno i rom. Questa giunta di sinistra non fa altro che proteggerli. Qui ci vogliono le ruspe, i campi vanno chiusi”.
I movimenti anti-razzisti e anti-fascisti della capitale (per la maggior parte della stampa, “quelli dei centri sociali”, ndr) sono presenti sul posto con un contro-presidio: un centinaio di persone pacifiche dietro lo striscione “Solidarietà per Corazon e tutti gli immigrati”. Tuttavia, il presidio, pur restando fermo sul marciapiede, senza intralciare la strada, non è autorizzato dalla Questura. Quindi, dopo un’ora di “tolleranza” da parte delle forze dell’ordine, partono le cariche: spintoni e manganellate per respingere il contro-presidio su via Mattia Battistini, ad una buona distanza dalla manifestazione dell’estrema destra romana. Gli anti-razzisti protestano contro CasaPound, che “seguendo l’esempio del suo capo Salvini, intende continuare a speculare sulla morte di una di quelle migranti che vorrebbero cacciare dal paese”. In serata, la Questura fa sapere che “durante l’attività di mediazione, volta a far allontanare i presenti affinché non venissero in contatto con i manifestanti di Casapound, è stato rinvenuto, sotto la bancarella di un ambulante, un borsone dentro il quale, sono state trovate e sequestrate alcune mazze di legno“. Cariche “giustificate”, quindi, e questione chiusa.
La lotta si sposta sul virtuale e prosegue su Twitter, con un botta e risposta tra il vicesindaco di Roma Luigi Nieri (“Sarò strano io, ma non capisco come si possa autorizzare una manifestazione razzista a Casapound e vietare un presidio antirazzista Boccea”) e Francesco Storace, segretario nazionale de La Destra e vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio (“la tua libertà consiste nel vietare agli altri il diritto a manifestare per le proprie idee. In fondo, sei un po’ razzista”).
Non si fa attendere neanche la risposta dei rappresentanti della Giunta Marino, in una nota congiunta di Francesca Danese, assessore alle Politiche sociali di Roma capitale, ed Erica Battaglia, Presidente di commissione: “L’appello di Casapound al Battistini, arriva tardi ed è fuori luogo. Arriva tardi, perchè tra gli impegni presi da questa Amministrazione in campagna elettorale c’era anche il superamento del sistema dei campi rom. È fuori luogo perchè non interroga la vecchia Amministrazione sull’uso dei fondi in emergenza che il governo Berlusconi diede a Roma per l’ormai noto e fallimentare `Piano Rom´ ideato dalla Giunta di centrodestra che guidava la città, piano che ha portato all’allestimento di tre nuovi campi per una spesa esagerata e al completo abbandono e sovraccarico di quelli già esistenti”.
Ma in tutto questo, tanto CasaPound, quanto la Giunta Marino, che sembrano concordi sul fatto che i campi vadano “chiusi” o “superati”, dimenticano la cosa più importante: ovvero le modalità. I cosiddetti “campi” devono e possono essere superati, di certo non con le vergognose politiche degli “sgomberi” e gli inni alle ruspe. Pianificarne la chiusura, significa prefigurare soluzioni abitative alternative, concordando con i residenti i tempi e le modalità di questo cambiamento. Le alternative possibili – lo dimostrano le buone pratiche di Pisa, Padova e Bologna – sono molte: dal sostegno all’inserimento in abitazioni ordinarie o in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate (per un approfondimento a riguardo, leggere il dossier Segregare Costa, a cura di Lunaria e altre associazioni).