Lunedì scorso ad Agrigento si sono tenuti i funerali delle 366 persone che hanno perso la vita nel naufragio del 3 ottobre scorso, al largo dell’Isola dei Conigli, a sud di Lampedusa.
Alla cerimonia erano presenti tre ministri dell’attuale governo: il ministro della Difesa Mario Mauro, la ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge e il ministro dell’Interno nonché vicepremier Angelino Alfano, criticato dai presenti al grido di “Basta Bossi- Fini”, e per questo portato via dalla sicurezza.
Sono molti gli aspetti di questa celebrazione che colpiscono in negativo.
La cosa da sottolineare prima che venga dimenticata, è la promessa dei funerali di stato: promessa fatta dal premier in persona, Enrico Letta, durante la conferenza stampa a Lampedusa, a pochi giorni dalla strage. Una promessa lanciata di fronte al presidente della Commissione europea Barroso e alla commissaria europea Maelstrom. Ma non mantenuta: le bare sono state tumulate in silenzio pochi giorni fa, senza alcuna celebrazione ufficiale, in vari comuni dell’agrigentino, tanto che la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini aveva commentato: “Se lo avessimo saputo ci avremmo pensato noi”.
Solo a tumulazione avvenuta è arrivato il rito solenne, con i ministri. Ma senza i sopravvissuti. Si perché, incredibilmente, i 157 superstiti alla strage non hanno potuto essere presenti, in quanto ancora rinchiusi nel centro di Lampedusa, indagati per il “reato di immigrazione clandestina”.
Quindi, un funerale senza bare, perché già tumulate, e senza le persone vicine e care ai morti, senza i loro compagni di viaggio. Ma con molte cariche istituzionali.
Non solo. Come se tutto questo non bastasse, alla celebrazione erano presenti anche i rappresentanti dei paesi di provenienza delle vittime. E qui serve una riflessione.
Secondo la Convenzione di Ginevra, una persona che chiede protezione umanitaria è “colui che, temendo di essere perseguitato [..], si trova fuori del Paese di cui è cittadino, e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. Perché diciamo questo? Perché la maggioranza delle persone che sono morte cercando di raggiungere l’Europa fuggivano dall’Eritrea e dal suo “governo dittatoriale”, come definito da don Mussie Zerai – il prete eritreo, presidente dell’Agenzia umanitaria Habeshia.
Le persone che cercavano di raggiungere le cose europee facevano parte di quel 73% che avrebbe diritto alla protezione internazionale, come affermato dal Cir pochi giorni fa, sulla base dei dati del Ministero dell’Interno, perché il proprio Paese – in questo caso l’Eritrea – non è in grado di proteggerli e, anzi, rappresenta esso stesso un pericolo.
“In Eritrea i giovani non possono avere il passaporto, il servizio militare è obbligatorio sia per gli uomini che per le donne e fino ad età avanzata (rispettivamente 50 e 40 anni). Chiunque esprima dissenso o tenti di lasciare il Paese paga con il carcere e la tortura”, denuncia don Mussie Zerai nella lettera che ha scritto alla ministra Kyenge, preoccupato proprio per la presenza dei funzionari eritrei durante la cerimonia funebre.
Non solo: “l’ambasciatore eritreo e suoi funzionari si aggirano indisturbati a Lampedusa tra i richiedenti asilo, raccogliendo dati e fotografie per la schedatura dei fuggitivi, in incontri che mettono a repentaglio la sicurezza di queste persone e delle loro famiglie”.
I funzionari del governo eritreo si sono infatti recati a Lampedusa pochi giorni fa, su richiesta formale alla Farnesina, con l’obiettivo dichiarato di “voler rimpatriare le bare”. Inoltre, pochi giorni fa c’è stato un incontro tra l’ambasciatore eritreo Zemede Tekle e il segretario generale della Farnesina Michele Valensise, in cui sono state illustrate le procedure in corso per il riconoscimento delle salme e gli interventi in atto.
“L’ambasciatore eritreo insieme a due funzionari ha chiesto al governo italiano la lista dei sopravvissuti al naufragio di Lampedusa, 148 eritrei – spiega don Zerai – Questo è pazzesco, noi l’abbiamo saputo e abbiamo avvisato subito l’Onu, che ha contattato il ministero degli Interni, che a quel punto gliel’ha negata. Però a Lampedusa è stato permesso ad alcuni eritrei, spie del regime, di entrare a contatto con i sopravvissuti. Queste persone stanno prendendo le loro generalità, fanno foto, ottengono informazioni. Non doveva essere permesso a nessuno di mettere in pericolo le vite delle famiglie dei richiedenti asilo e quindi anche dei sopravvissuti stessi”. Le persone su cui don Zerai lancia l’allarme fanno parte di una delegazione che ha incontrato la ministra Kyenge in rappresentanza formale della ”Comunità Eritrea”: “questo gruppo di persone residenti in Italia da lungo corso sono i veri sostenitori e finanziatori del regime Eritreo che è il più sanguinario e totalitario dell’Africa dei nostri tempi. [..] Le vittime di Lampedusa fuggivano da questo regime, che oggi si presentano da Lei per sembrare preoccupati della vita dei nostri connazionali”.
Nella lettera, don Zerai chiede anche “un tavolo di incontro tra il governo e la delegazione di famigliari e Associazione di rifugiati Eritrei”, e sollecita un reale cambiamento: “Chiediamo di cambiare il passo, che si faccia una politica europea più attenta alla vita e dignità dei profughi in cerca di protezione, prevenire ogni pericolo compreso la tortura e violenza alla quale sono sottoposti in molti oggi in Libia”.
Un cambiamento che, ad oggi, non si è ancora visto, e dal quale è estremamente lontana la missione militare Mare Nostrum annunciata dal governo pochi giorni fa.
Dopo la promessa infranta, la tumulazione senza rito, i superstiti rinchiusi a Lampedusa e indagati, la celebrazione vista da molti come una pura “passerella politica”, la presenza dell’ambasciatore eritreo alla commemorazione di Agrigento è uno dei punti più bassi di questa vergognosa e drammatica vicenda.