Un articolo di Francesca Musacchio, sul “Tempo” dell’ 11 settembre 2018, torna prezioso per proseguire la nostra riflessione su dati, percezioni, rappresentazioni distorte: tanto sembra un testo da laboratorio, fatto per un’esercitazione seminariale.
Torna utile un riepilogo della faccenda.
Il 4 settembre, il Corriere della Sera riportava i risultati di un’indagine annuale condotta dal 2014 da IPSOS, secondo la quale l’Italia è il paese in cui la percezione dei fenomeni sociali è la più lontana dai dati statistici. Per esempio, gli italiani intervistati pensano in media che i cristiani siano il 69% e non l’80%, e i musulmani il 20% e non il 4,8%; questi ultimi nel 2030 saranno secondo una stima attenta il 5,4%, e non il 31%, che è la risposta media fornita dagli intervistati; si immagina che gli immigrati siano il 30% della popolazione, e non il 9,2% e che i disoccupati siano il 49% – e non il 10,4%, come dicono le statistiche ufficiali. E’ poi istruttivo notare come alcune risposte a domande contigue siano contraddittorie. Per esempio, si pensa che il 48% degli abitanti in Italia abbia più di 65 anni (la risposta corretta è 22,6%), e che l’età media della popolazione sia di 59 anni (esattamente è di 45,5 anni), ma poi quando si deve stimare quanti siano i minori di 14 anni, invece di tenersi al di sotto del dato statistico (13,7%), come le risposte precedenti dovrebbero costringere a fare, si inventa una cifra inverosimile, il 26%.
Di fronte a simili facezie, ci sarebbe da essere preoccupati. Come scrive un’esperta, Annamaria Testa, in un articolo da leggere con la dovuta lentezza, “se le percezioni sono distorte, e se magari anche i concetti sono fragili, facciamo valutazioni infondate e poi prendiamo decisioni stupide, inadeguate o controproducenti.”
E invece no, strilla uno dei tanti che non sopportano dati ed esperti, e proclamano la verità delle distorsioni. Mario Giordano, in un articolo che abbiamo qui analizzato alcuni giorni fa, sostiene testualmente che “l’élite percepisce gli italiani come imbecilli”: se gli italiani in media pensano che gli immigrati sono il 30 e non il 9 per cento, hanno le loro buone ragioni, e non li convincerà nessun complotto di chi si permette di cercare di pensare su dati certi.
A noi interessa qui riproporre la domanda evitata da Giordano: dove, come, a opera di chi e perché avvengono le distorsioni?
Ci sono, è chiaro, distorsioni spiegabili su basi cognitive. E qui non è in gioco, come suggerisce Giordano, l’appartenenza al supposto popolo o alla supposta élite, ma altro: Annamaria Testa accenna giustamente al ruolo svolto dalla euristica della disponibilità, che spinge a sovrastimare la frequenza di fatti di cui si ha spesso notizia, e al bias (distorsione) di conferma, che spinge a cercare notizie, pareri ed evidenze che sostengono ciò di cui si è già convinti, e soprattutto a ignorare tutto ciò che contrasta con le convinzioni pregresse. Nell’intervento precedente su “Cronache”, indicavamo i lavori di Kahnemann, Tverski, Thaler, Sunstein come fondamentali per rendersi conto di tali meccanismi – sempre che si voglia evitare di cascarci autoeducandosi, per quanto possibile, a difendersene, per non andare a caccia di fantasmi quando si affrontano problemi seri.
Ma oltre alle distorsioni inevitabili ci sono quelle favorite, suscitate, sostenute, costruite. Nonostante le distorsioni cognitive, se un numero significativo di persone viene messo di fronte a un problema di misurazione – per esempio: quante monetine tutte da dieci centesimi di euro ci sono in un vasetto di vetro? -, le risposte sono tante e diverse, ma la loro media non è lontana dalla realtà misurabile. I singoli errori di valutazione, compiuti indipendentemente da ogni singola persona, tendono ad avere come media zero. E più alto è il numero degli intervistati, più ci si avvicina allo zero. Ma se gli intervistati condividono un’influenza, o si influenzano a vicenda, la precisione della stima media si riduce. Valutare una quantità, indipendentemente da influssi esterni, è una cosa (e la media delle varie stime non si discosta dal numero corretto); stimare l’entità di un fenomeno su cui si ripete senza fine un mantra collettivo distorto, non salva affatto l’indipendenza di percezione e di giudizio; e la stima risulta gravemente distorta.
Ciascuno di noi ha sotto gli occhi attività che influenzano le percezioni, proponendo una rappresentazione sociale, per esempio grazie al bombardamento di narrazioni che poi si presentano a ciascuno di noi come disponibili: al momento giusto, una narrazione-tipo, anche se poco rilevante dal punto di vista statistico, prende il posto dell’osservazione attenta, e conduce a distorsioni – come mostrano esperimenti memorabili e soprattutto divertenti. “Ciò che si vede è l’unica cosa che c’è”, What you see is all there is, dicevano Amos Tversky e Daniel Kahnemann per indicare la grande asimmetria tra i modi in cui la nostra mente tratta le informazioni immediatamente disponibili e quelle che non lo sono. Ma senza riflessione, rallentamento, dubbio non si comprende molto neanche di ciò che ci è vicino.
Che cosa c’entra l’articolo di Musacchio sul Tempo, visto che riporta numeri, e per giunta ufficiali? Il problema è proprio qui. Davvero, i dati riportati da Musacchio sono utili per una considerazione basata su certezze statistiche? Non è così. Basta leggere attentamente, e si scoprirà che anche in questo caso le narrazioni disponibili, schematiche e forzatamente coerenti, prevalgono sulle attività che presiedono alla comprensione dei dati e perciò a un’informazione più plausibile.
Intanto chi legga la tabella riportata da Musacchio si accorgerà subito che c’è qualcosa che non va: vi sono anomalie statistiche sesquipedali. Si veda la riga riguardante le violenze sessuali: la tabella contraddice quanto scrive Musacchio, e suggerisce che si passi, per le violenze sessuali, dalle 26.738 denunce dell’anno scorso alle 2.519 di quest’anno. Analogo slittamento riguarda il dato delle rapine, che si sarebbero invece moltiplicate per cinque in un solo anno. Se invece si spostano le righe interessate da tali anomalie, i numeri tornano a essere plausibili. Ora, la tabella proposta sul “Tempo” ha una fonte, lo SDI (Sistema Di indagine), banca dati delle forze di Polizia gestita dal Ministero dell’Interno, che non è accessibile ai più (e per la verità sembra che tale rimanga, in attesa di tardive pubblicazioni da parte dell’Istat). Il giornale, o la giornalista, hanno avuto una tabella, ed è una cosa utile, per poter comprendere le le attività della polizia. A un certo punto, è possibile che qualcuno abbia confuso le righe, e i numeri proposti nella tabella sembrano materialmente sbagliati. Ma il fatto che tali tabelle siano di difficile accesso dà, paradossalmente, potere a chi li pubblica: chi può azzardare che si tratti di dati sbagliati? Qui il richiamo all’autorità della fonte (non verificabile) si scontra con un criterio che dai tempi di Galileo conta assai di più, la verifica secondo parametri e metodi scientifici. L’anomalia statistica ci avverte che quei numeri non sono a posto, forse semplicemente perché non sono rimasti al loro posto e hanno invaso quadretti vicini. Capita. Ciò mostra ancora una volta che – come l’euristica della disponibilità suggerisce – si producono distorsioni invitando le persone a ricostruire narrazioni, non a leggere dati statistici certi.
Si dirà che un errore sciagurato, un refuso, non deve guastare la qualità di un articolo. E’ vero: ma la scarsa verosimiglianza di alcuni numeri è qui un sintomo della difficoltà di gestirli con la dovuta competenza. La medesima mancanza si manifesta infatti nella individuazione dell’insieme che quei numeri rappresentano. La giornalista comincia l’articolo esprimendo uno scarto logico, una deduzione fallace. “In aumento i reati commessi dagli immigrati. Tra furti, rapine, scippi (…) la percentuale di stranieri denunciati o arrestati rispetto al totale è del 31,9%, in confronto al 27,4% del 2017.”
Che la percentuale degli stranieri rispetto al totale dei denunciati sia aumentata dall’anno scorso a quest’anno, non dimostra affatto che i reati commessi siano aumentati. Non dimostra neppure che siano aumentati i reati denunciati. La cifra si riferisce, come Musacchio peraltro scrive nello stesso periodo in cui parla di reati commessi, alle denunce. Basterebbe un po’ di buon senso per non cadere in un’affermazione così grossolana; ma il buon senso se ne sta nascosto, per paura del senso comune, come scriveva Manzoni: e, come diceva Raymond Aron, è infelice politicamente il paese in cui il senso comune fa a pugni con le evidenze (si aggiunga pure: statistiche).
L’evidenza suggerisce che, se c’è un certo numero di reati commessi, solo una parte di essi sarà denunciata. C’è perciò uno scarto (un numero buio, diceva un criminologo autorevole) tra reati commessi e reati denunciati. Se poi si usano i dati riguardanti non la denuncia del reato, ma la denuncia di un possibile autore, i numeri cambiano, e tanto sensibilmente da rendere poco credibile chi scivola da una tabella a un’altra; e del tutto inattendibili i numeri su cui si costruiscono titoli e allarmi.
Facciamo un esempio. Si compiono un certo numero di furti, diciamo (100 + x). Indichiamo con “X” il numero nero, la fascia di furti non denunciata, inconoscibile, per definizione. E’ possibile invece quantificare i furti denunciati, e qui li facciamo pari a 100. Ed è possibile anche avere dati sulle persone denunciate, i probabili (per la polizia) autori di una parte dei furti; questo numero lo chiameremo y. Facciamo che in un certo anno questo y sia esattamente l’7 %. Significherebbe che su 100 furti, non compiuti, ma denunciati, ci sono 7 persone denunciate dalla polizia, che poi saranno giudicate in tribunale; e in parte si ridurranno. E ipotizziamo che su quel 7 di autori una percentuale alta, il 40%, sia di stranieri. Questa percentuale, rapportata ai furti denunciati, equivarrebbe a 2,80%.
La faccenda si potrebbe raccontare perciò in due modi.
Il primo è questo: non si dice che rapporto c’è tra 100 e y, tra i furti denunciati e i possibili autori denunciati, e si scrive che il 40% di y è straniero: una cifra proporzionalmente alta. Ci sono molti elementi per capire questa salienza statistica: le condizioni sociali in cui vivono tutti quelli che fan parte di y (i denunciati), il loro essere di solito maschi e spesso giovani (condizione più frequente negli stranieri che negli italiani, statistiche alla mano); ma soprattutto un elemento su cui insisteva Sellin, quel criminologo che diceva che c’era un numero nero oltre i 100 furti denunciati. E cioè l’evidenza per cui, man mano che ci sia allontana dalle tabelle con i dati sui reati (la prima: 100+x; la seconda: 100; la terza: 7; la quarta, più bassa, sulle condanne, etc.) il numero è una variabile su cui incide sempre di più l’operato delle agenzie di criminalizzazione: della polizia, cioè, e delle procure. In altre parole: per capire il 7 per cento, e la sua composizione interna (quanti italiani, quanti no, quanti maschi o femmine, quanti idraulici e quanti colletti bianchi, etc.), bisogna tener conto dell’operato della polizia, che “assicura alla giustizia”, appunto, solo i presunti autori del 7% dei casi (si tratta di una cifra approssimativa, perché è possibile che ci siano presunti autori di y furti, e bisognerebbe sapere se nelle statistiche ciascuno di essi conti come 1 o come y); e dentro questo 7% le polizie raggiungono un numero di stranieri alto se rapportato ai denunciati, ma bassissimo se rapportato alle denunce di furto; per ottenere tale risultato, basterà che la polizia eserciti un’attività di controllo più alta per persone appartenenti a una fascia di popolazione (maschi, con i capelli ricci, secondo una famosa indagine svolta negli USA; o visibilmente arabi o neri, come da ricerche nostrane). Il lettore avveduto, come è quello che qui si sollecita e auspica, avrà capito che quel 7 per cento non è ipotetico. Si avvicina infatti alla percentuale dei denunciati per furto rispetto ai furti denunciati. Non abbiamo la cifra esatta, perché non abbiamo accesso ai dati, come invece la giornalista del “Tempo”. Ma l’oscillazione statistica, per anni, è stata tra il 5 e il 10 per cento. Una tale costanza su cifre così alte è significativa: su 100 furti denunciati, vengono denunciate all’incirca 7 persone. Di queste, secondo le tabelle fornite alla giornalista del “Tempo” e da lei riportate, il 39% nel 2017 sono straniere; nel 2018, finora, il 44,74%. Un’impennata all’interno di un piccolo numero, prevedibilissima dopo il can-can di questi ultimi anni sul pericolo-immigrati.
Ed ecco la seconda possibilità di raccontare quel numero: basterà dire che su 100 furti denunciati i possibili autori senza passaporto italiano sono il 2,8%, arrotondando per eccesso; e che nei primi mesi del 2018 c’è un aumento, nell’ordine dello 0,50% (sempre arrotondando per eccesso). Cifra dai termini minimi, prevista in aumento i prossimi mesi, data l’ossessione-immigrati nel discorso pubblico. In altre parole: i dati saranno anche il prodotto dell’azione di diversi soggetti, prime di tutto le “agenzie di criminalizzazione”: le polizie. E si può aggiungere che la confusione su furti commessi e furti di cui è denunciato un possibile autore è da evitare, pena il parlare di fantasmi, fumo, nulla.
L’altro procedimento dell’articolo che ne danneggia la qualità informativa è il continuo slittamento tra i dati statistici, così mal compresi e riportati, e gli inserti narrativi. Musacchio usa i numeri (con le anomalie segnalate), finché le servono per confermare se stessa e il lettore in una tesi prestabilita; ma poi si rifà al luogo da cui quella tesi è decollata, la narrazione. Vengono raccontati una serie di reati, più o meno “efferati”, s’intende, e alla rinfusa: un catalogo delle disponibilità; e con debolezze logico-espressive che attentano al fegato del lettore non analfabeta. Per un solo esempio, qui: “Le donne, soprattutto anziane, sono però uno degli obiettivi”: Si provi a guardare prima, e dopo: il “però” non trova sostegno. Non si tratta dell’osservazione di un insegnante in pensione, pronto a usare la matita rossa e blu. Il fatto è che la scarsa qualità della coesione testuale costringe la coerenza a ripiegare su schemi che affidano alla banalità la loro forza di persuasione. Tale tipo di coerenza schematica produce sicurezza, perché mette al riparo dai dubbi, e incentiva quella “euristica della disponibilità” di cui parla Annamaria Testa su “Internazionale”. Contro tale euristica Tverski e Kahnemann insegnano a stare in guardia; solo evitando l’attenzione, il dubbio, il pensare, è possibile darsi allo sport preferito da quella signora di cui parlava Danny Kaye (una pietra miliare nella storia della comicità moderna): il salto alle conclusioni.
Eccole, le conclusioni, nel titolo: “BOOM DI REATI DEGLI STRANIERI”. Un boom del 2,80 o del 3,50% che sia (arrotondato) e da altre cifre simili, che lette attentamente sarebbero, sì, rivelatrici. Ma la percezione distorta che mostra la giornalista prevale sul rispetto dei dati e su un tentativo di interpretazione fondato.
Così è anche nel sottotitolo: “Furti, rapine, violenze sessuali in aumento”. Per chi voglia essere informato, e non blandito nei peggiori istinti: i delitti denunciati diminuiscono. Lo dicono i dati forniti dal Ministero degli interni. Del resto, diminuiscono da molti anni, e si continua ad alimentare una favola allarmistica. E’ la percezione, dicono sempre più spesso; e da dieci anni lo dice anche il Viminale, assecondando irresponsabilmente un senso comune rischiosamente allarmato e dettandogli questo slogan, come mostrava uno studio prezioso di Marcello Maneri nel 2013. La percezione dell’insicurezza non è un fenomeno naturale, ma una distorsione a cui contribuisce la rappresentazione sociale che si costruisce e negozia dappertutto. Perciò sarà necessario “studiare l’ancoraggio degli atteggiamenti e delle cognizioni alle particolarità del campo sociale che li genera”, come scrivevano anni fa esponenti della prestigiosa scuola di psicologia sociale di Moscovici (padre, s’intende).-
Giuseppe Faso