di Giuseppe Faso
Pochi anni fa, un autorevole criminologo, Dario Melossi, alla fine di un’analisi assai severa del libro di Barbagli sulla criminalità degli immigrati, osservava: “La grossolanità delle sue tesi dal punto di vista sociologico, insieme al danno causato dalla loro popolarità – danno agli immigrati, certo, ma innanzitutto e ben di più alla comunità italiana nel suo complesso, per la legittimazione conferita a posizioni che non hanno fatto che rendere assai più difficile l’elaborazione di politiche razionali rispetto ad un fenomeno, quello dell’immigrazione, che è probabilmente il fenomeno sociale più importante accaduto in Italia negli ultimi vent’anni –, avrebbe dovuto sollecitare approcci critici ben più autorevoli, decisi, e risoluti. Sarebbe dovuta essere la «comunità sociologica» italiana – e non eccettuo certamente chi sta ora scrivendo! – a criticare e correggere Barbagli, invece di lasciarlo libero di perseverare diabolicamente nell’errore, edizione dopo edizione dello stesso testo.” (“I soliti noti”, in “Etnografia e ricerca qualitativa” n. 3, dicembre 2010).
In quell’occasione, ebbi uno scambio di messaggi con Melossi, che mi aveva fatto avere il suo contributo; avevo da poco scritto il quarto o quinto intervento sul libro di Barbagli, giunto nel frattempo alla terza edizione; dato che non appartengo alla comunità scientifica, ma mi muovo in un orizzonte di preoccupazioni civili, non avevo aspettato dodici anni per indicare la mancanza di dignità di posizioni pubbliche di chi dovrebbe fare ricerca; segnalai in quell’occasione al mio gentile interlocutore un articolo particolarmente privo di ogni senso della misura, di L. Ricolfi, Giustizia: paradiso per stranieri onesti e inferno per i criminali, “La Stampa”, 21 febbraio 2009, che così avevo commentato sul numero di “Guerre e Pace” di maggio 2009:
“Che sia alto tra i denunciati il numero di persone che non hanno la cittadinanza italiana, potrebbe voler dire molte cose: ma Ricolfi sorvola su questo e parla, come di un dato naturale, di ‘tasso di criminalità’, anche di singole nazionalità, per poi concentrarsi sul ‘problema della violenza sessuale e degli stupri’. E qui c’è uno sprazzo inaudito: ‘Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani’.”
Ora Ricolfi torna su quelle affermazioni, in un articolo sul “Sole 24 ore”, che si può leggere qui. In un testo di grande banalità (perché ovvio e prevedibile), Ricolfi inserisce quella che gli dev’essere sembrata una trovata originale, segno di distinzione per uno che è ordinario di psicometria all’università, e come editorialista è stato insignito di un premio. Attira cioè l’attenzione su una differenza che gli sembra “cruciale nel contrasto all’illegalità, alla criminalità e al terrorismo”: la differenza “tra chi ha una bassa e chi un’elevata propensione al rischio”.
Al lettore malcapitato che sente di stare accedendo al sancta sanctorum di un mistero sociale finalmente decifrato, Ricolfi offre un esempio di prosa un po’ lontana da quella galileiana:
“Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissima avversione al rischio. L’immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel bene come nel male“. A questo punto lo svolgimento del pezzo segue binari tanto prevedibili quanto male argomentati, per concludere che “dovremmo cominciare a renderci conto che l’unico modo per contrastare i soggetti con bassa avversione al rischio è innalzare il rischio stesso, non tanto di essere individuati quanto di essere condannati (celermente) e sanzionati (effettivamente)”. Questo vale per tutti, soggiunge Ricolfi, ma…
Ma in modo particolare “per quanti, rifugiati e migranti economici, l’Europa giustamente cerca di accogliere entro i propri confini”. Non fermatevi, vi prego, a considerare la ricchezza di informazioni che queste due sue righe, in realtà quasi un poema, fornisce sull’accademico editorialista: perché il bello arriva adesso. In Italia, scrive Ricolfi, anzi: “in un paese come l’Italia” (che è messaggio diverso), “il tasso di criminalità degli immigrati è circa sei volte quello degli italiani, e probabilmente poggia più su una minore avversione al rischio che su speciali, indimostrate, tendenze criminali connesse alle varie etnie”. Il resto ve lo potete scrivere da voi, enfatizzando le vostre impressioni con dei superlativi, e inserendo un “probabilmente” quando vi si potrebbe chiedere una prova. Il pessimo tema di uno scolaro che, non avendo studiato, bluffa.
Veniamo a sapere, da queste righe preziose, che:
• Luca Ricolfi probabilmente non ha idea di cosa significa la parola etnia, a men che non volesse indicare i gruppi igbo, yoruba, wolof, peul, etc; più probabilmente vuole fare riferimento alle origini nazionali. Si dirà che anche su wikipedia quando si elencano le nazionalità dei residenti in una città italiana, si adopera il cartellino “etnia”; ma, appunto, trattasi di infelice scelta dell’anonima pluralità che redige l’enciclopedia sul web; da un uomo di scienza come Ricolfi si potrebbe esigere di più;
• Ricolfi dice oggi, nel 2016, che sono “indimostrate tendenze criminali connesse alle varie etnie”. E la “propensione allo stupro” da lui attribuita agli stranieri nel 2009? Professore, dove e quando le è apparsa la luce?
• il “tasso di criminalità” poggia sull’“avversione al rischio” PROBABILMENTE; l’avverbio sarebbe il segno di una lodevole cautela scientifica se ci fosse una traccia anche minima di ragionamento non appoggiato solo su impressioni e categorie da bar;
• Ricolfi ci ha messo sette anni per abbandonare la categoria “propensione allo stupro”, ma sembra non riuscire a rendersi conto che l’espressione “tasso di criminalità” è allo stesso livello di scientificità: zero.
In questi anni, aspettando che la comunità scientifica si svegli per dire che “propensione allo stupro” e “tasso di criminalità” sono espressioni che squalificano chi le usa, mi è capitato spesso di far leggere l’articolo del 2009 di Ricolfi in corsi di formazione per operatori, e di chiedere loro come si possa stabilire il tasso di criminalità di un insieme di persone, peraltro tenuti insieme dal fatto di non essere qualcosa; in questo caso, cittadini italiani. Basta meno di un’ora perché nella discussione si impongano posizioni di buonsenso, che oltre tutto si rivelano del tutto sovrapponibili ai classici della criminologia:
1. non è possibile rilevare il “tasso di criminalità” di una popolazione; si può immaginare di misurare il tasso di crimini rilevabili secondo certi criteri;
2. non è possibile sapere quanti crimini siano stati compiuti, e da chi, in un determinato posto e in un certo periodo di tempo;
3. è possibile contare i crimini denunciati, dalle vittime o da altre agenzie (per esempio, forze dell’ordine); si possono perciò condurre statistiche sui crimini denunciati, ma non sui loro autori, dal momento che molti crimini sono denunciati senza poter indicare l’autore;
4. è possibile condurre statistiche sulle persone denunciate dalle forze dell’ordine dopo un’indagine; per i furti, per esempio esse risultano intorno al 5% rispetto ai furti denunciati;
5. è possibile condurre statistiche sulle persone condannate dopo il primo, secondo o terzo grado di giudizio.
A questo punto, il buon senso obbliga a dire che non si possono produrre “tassi di criminalità”, né “tassi sui crimini compiuti”, ma “tassi sui crimini denunciati” (3), degli “autori denunciati di crimini denunciati” (4), degli “autori condannati per crimini denunciati”(5).
L’altro esito che il buon senso raggiunge presto è la comprensione che dal punto di vista scientifico non ha molto senso parlare di “tassi di crimini (compiuti, denunciati, etc.)” in un discorso che riguardi solo gli autori, e non anche le agenzie di criminalizzazione. Il crimine denunciato, o i suoi autori denunciati o condannati, sono infatti il risultato di un’attività di diversi insiemi. C’è chi subisce un crimine e non denuncia; e ci sono poi le forze dell’ordine che “assicurano alla giustizia” percentuali a volte assai basse dei presunti autori di crimini denunciati.
Ci sono studi, soprattutto all’estero, che mostrano come l’attività delle forze dell’ordine sia spesso selettiva. Per rimanere a esempi di immediata comprensione, pare proprio che negli USA sia più facile che venga aperto il bagagliaio dell’auto di un uomo giovane e nero di pelle, o dai capelli ricci. E ci sono libri bianchi sulla criminalità, del Ministero italiano degli interni, che dedicano centinaia di pagine ai dati statistici sull’immigrazione e dimenticano di parlare dei reati da “colletti bianchi”: è possibile che tale dimenticanza in una ricerca costosa sia da collegare ad una sottovalutazione del contrasto a quel genere di attività criminose.
Su qualsiasi buon manuale di criminologia si impara che man mano che ci si allontana dalla scena del crimine (e si passa per il luogo della denuncia, delle investigazioni, dell’esercizio della Giustizia) le statistiche servono a comprendere sempre di più l’operato delle agenzie di criminalizzazione e sempre meno le eventuali propensioni sociopsicologiche degli autori dei reati.
Così nei corsi di formazione gli operatori di un’amministrazione pubblica o di associazioni di volontariato ci mettono poco a capire che parlare di “tasso di criminalità” sia una stupidaggine, e che “propensione allo stupro” induce a sospettare – in chi parla così – propensioni di scarso tasso civile. Non è detto che chi ragioni su tali scorciatoie sia, come immagina Ricolfi nell’incomparabile conclusione del suo intervento, fautore “dell’integrazione senza se e senza ma”. Può darsi che semplicemente non abbia bisogno di popolare la mente di fantasmi, come quelli dei romeni propensi allo stupro o dell’”integrazione” (chiedo scusa del termine, che ritengo poco scientifico, ma fa parte dei fantasmi di Ricolfi, o che Ricolfi presuppone nei suoi lettori) a ogni costo.
Credo non incongruo, alla fine di questa analisi, della cui lunghezza chiedo scusa al lettore benevolo, ritornare sul nucleo generatore da cui muove il discorso di Ricolfi, e che spero si renda utile e diventi memorabile in sessioni di lavoro formativo:
“Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissima avversione al rischio. L’immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel bene come nel male.”
“Noi, normali” chi? E’ normale istituire una normalità del “noi” e aggettivarla col superlativo di un aggettivo, come “elevata”, che da solo suonerebbe già superlativo? E inventare un immigrato “medio” anch’esso fatto oggetto di un avverbio di qualità tanto esagerato che non tollera superlativi, come “enormemente”? E qual è il risultato di tutta questa bella retorica, non sorretta, s’intende, da uno straccio di ragionamento? Provo a rappresentare graficamente il risultato di tale esasperazione:
Noi, normali caratterizzati da elevatissima avversione al rischio
Lui, immigrato medio caratterizzato da enorme disponibilità al rischio
In mezzo, non ci sta nulla; non c’è uno spazio di comunicazione e confronto, nessuna pluralità di stili di vita, comportamenti, atteggiamenti. Da pochi decenni vivo in una regione d’Italia diversa da quella in cui sono nato, da quella in cui son vissuto da ragazzo da quella in cui ho studiato all’università, e da quella in cui ho lavorato dieci anni da giovane; e dovrei ingabbiarmi tra i normali, come mi invita a fare l’articolista del “Sole 24 ore”, lontano dalla presunta e “indimostrata” propensione al rischio di un immigrato che qui ci sta da vent’anni, e il cui accento, quando parla in italiano, è molto più locale del mio? Ma il discorso del prof. Ricolfi è perentorio: da una parte tutta la normalità, dall’altra i portatori di rischio. Mi guardo intorno, faccio una certa fatica a immaginare di potere ridurre a questo schema manicheo la molteplicità delle persone che vedo, la pluralità dei loro comportamenti, la resistenza dei più alla corruzione diffusa a partire dai più alti uffici. Vedo solo un Ricolfi che, proclamatosi, quale europeo normale, avverso in maniera assai elevata al rischio, poi rischia tutta la sua credibilità di ricercatore proponendo queste immagini caricaturali della realtà e della scienza sociale da lui professata.