Silvia Romano è stata liberata. La notizia è arrivata nel pomeriggio di sabato 9 maggio tramite un annuncio su Twitter del premier Giuseppe Conte. La ragazza era stata rapita il 20 novembre del 2018 in Kenya, nel villaggio di Chakama, dove stava lavorando come educatrice per i bambini del posto con la Onlus “Africa Milele”.
La giovane cooperante milanese è stata prigioniera, per ben 535 giorni, del gruppo terroristico jihadista Al-Shabaab, la cellula somala di Al-Qaeda. Dopo 18 lunghissimi mesi di incertezza e soprattutto di timore circa le sue sorti, è stata tratta in salvo a pochi chilometri da Mogadiscio, in Somalia. All’indomani dell’annuncio della sua liberazione, Silvia Romano è tornata in Italia, è atterrata all’aeroporto di Ciampino con un volo militare e finalmente ha potuto riabbracciare, dopo tanto tempo, la sua famiglia.
La gioia scaturita dalla libertà appena riacquistata da una ragazza poco più che ventenne, reduce da un’esperienza traumatica come può essere un rapimento, è stata macchiata da una valanga di odio che ha travolto Silvia. Un veleno diffuso non solo dai classici “tuttologi” del web, ma anche da personaggi ben più influenti e con un bacino di utenza molto ampio come politici e giornalisti che non hanno risparmiato attacchi ingiusti e minacce spaventose alla ragazza appena liberata.
Ancora prima del suo rientro in Italia, numerosi utenti delle varie piattaforme social hanno cominciato a chiedere notizie circa il presunto riscatto pagato e su quanto la liberazione di Silvia fosse “costata” allo Stato e ai contribuenti, quanti soldi fossero stati “sprecati” e “buttati” per salvare una ragazza che ha avuto la “pretesa” di aiutare i meno fortunati lontana da casa. Ma una vita umana ha davvero un prezzo?
Lo sgomento ha poi raggiunto livelli più alti quando si è diffusa la notizia della conversione alla religione musulmana della giovane (notizia condita oltretutto da una fakenews che voleva Silvia sposata e incinta di uno dei sui carcerieri). Un’ossessione inquietante e spasmodica si è propagata sui giornali e sui social per sapere come, quando e perché la 24enne milanese fosse diventata musulmana. Silvia ha in seguito dichiarato ai magistrati che l’hanno interrogata di aver abbracciato la religione musulmana di sua spontanea volontà, senza costrizioni e imposizioni da parte dei suoi rapitori, dopo la lettura del Corano durante i mesi di prigionia.
La sua conversione, il fatto di aver “osato” scendere dall’aereo con indosso un jilbab (erroneamente considerato dai più come un abito tipico indossato dalle donne musulmane somale), sono stati gesti considerati oltraggiosi, uno “schiaffo all’Italia” precisamente, come apparso in prima pagina su “Il Giornale”. Non riconoscente, “ingrata” (citando sempre “Il Giornale”) nei confronti degli sforzi fatti dallo Stato e dei soldi utilizzati per salvarla perché musulmana, e dunque, secondo una deduzione che non trova nessun riscontro, complice dei jihadisti. Si veda a tale proposito lo scandaloso post Facebook di Vittorio Sgarbi, parlamentare, secondo il quale la giovane “va arrestata” per “concorso esterno in associazione terroristica”. L’odio non ha risparmiato nemmeno le aule parlamentari. L’onorevole Alessandro Pagano (Lega Nord) ha definito, durante un discorso alla Camera, Silvia Romano “una neo-terrorista”, un’accusa oltraggiosa e inaccettabile.
Gli haters dimenticano forse che l’Italia è un paese laico che garantisce uguaglianza a prescindere dal proprio orientamento religioso (articolo 3 della Costituzione) e libertà di culto (articolo 19 della Costituzione). L’11 maggio “Libero” titolava “Abbiamo liberato un’islamica”. Premesso che la fede è una questione estremamente privata e personale, e dunque non dovremmo nemmeno preoccuparci dell’orientamento religioso di qualcun’altro, Silvia è stata forse meno meritevole di essere liberata perché ha scelto di diventare musulmana? E soprattutto per averlo fatto (addirittura!) spontaneamente? Ovviamente no. Ancora una volta ci troviamo dinanzi ad un caso di islamofobia.
Ci sono poi coloro che non credono alla conversione spontanea della giovane, Silvia sarebbe diventata musulmana perché “le hanno fatto il lavaggio del cervello” e “è stata plagiata”. Certo, perché in Italia ancora oggi c’è chi considera impossibile che una giovane donna abbia avuto la forza e la libertà di trovare autonomamente la fede in un momento così drammatico della sua vita. Una fede che, forse, per lei ha rappresentato un’ancora di salvezza nell’anno e mezzo di prigionia. In ogni caso, in qualsiasi modo sia avvenuta la sua conversione, non spetta a noi saperlo.
All’indignazione generalizzata per la sua conversione sono seguite intimidazioni e minacce alla sua vita. Un consigliere comunale di Asolo, in provincia di Treviso, tale Nico Basso, ex assessore della Lega Nord, ha pubblicato un post riguardante Silvia con la didascalia “Impiccatela!”. Il post è stato cancellato poco dopo. Il numero esorbitante e la gravità delle minacce rivolte a Silvia ha portato la procura di Milano ad aprire un’indagine per minacce aggravate e a valutare la possibilità di assegnarle una scorta per proteggerla.
Gli insulti violenti (ma anche le righe di alcuni quotidiani main-stream più autorevoli) non si limitano (si fa per dire) a scegliere come bersaglio la conversione religiosa della ragazza, ma attaccano anche il suo corpo di donna. Silvia è “troppo sorridente”, “non sembra se la sia passata così male”, “è ingrassata”, “ma come si è vestita”, questi alcuni commenti sul web. Commenti a cui fanno eco le deplorevoli parole di (guarda caso) due politici leghisti: Emilio Moretti (assessore comunale di Sorrento) e Clara Rolla (segretario della Lega di Sorrento). La Rolla in un post Facebook definiva Silvia “una sciaquina, un’emerita cretina”, post al quale Moretti, emblema del più becero maschilismo, rispondeva: “Ma con tutto il rispetto la avete guardata bene? Lei in realtà non voleva tornare, dove li trova altri uomini?”.
Ancora una volta il sessismo tossico che attraversa la nostra società pretende di stabilire come una donna debba vestirsi, reagire, comportarsi, mostrarsi. Tutto ciò, ovviamente, per compiacere l’altro sesso.
Silvia è tornata libera, ma è ora prigioniera dei pregiudizi che le hanno vomitato addosso. In un momento delicato come il rientro a casa dopo un lungo rapimento, avremmo dovuto offrirle gioia, entusiasmo e soprattutto rispettoso silenzio per la drammatica esperienza vissuta. Silvia avrebbe dovuto avere la possibilità di leccarsi le ferite dell’anima che il rapimento sicuramente le ha lasciato, cullata dall’amore dei suoi cari e dei suoi connazionali, per poi riprendere in mano la propria vita.
Ciò che emerge invece è l’immagine di una Silvia Romano colpevole.
Colpevole di “essersela cercata”. Colpevole di essere stata liberata beneficiando (forse) di soldi statali per il pagamento del riscatto. Colpevole di aver scelto consapevolmente di diventare musulmana. Colpevole di essere felice e di sorridere al suo ritorno in Italia. Colpevole di non portare sul corpo i segni di una prigionia lunga un anno e mezzo. Colpevole di essere una giovane donna libera.
Fortunatamente non è solo questa l’Italia che ha accolto Silvia.
Tanti sono stati i messaggi di solidarietà e di gioia e le dimostrazioni di affetto che Silvia e la sua famiglia hanno ricevuto non appena si è diffusa la tanto attesa notizia della liberazione.
Silvia ha saputo resistere lontana dai suoi cari in uno stato di prigionia durato a lungo, “sono stata forte” ha dichiarato lei stessa, e forse dovrà resistere ed essere forte ancora un po’, dovrà resistere agli attacchi gratuiti e violenti di chi la voleva diversa, ma ai quali lei potrà gridare di essere, finalmente, ancora libera.
Noi non possiamo che augurarle il meglio e gioire con entusiasmo per la sua liberazione. Bentornata Silvia!
Veronica Iesuè