Con il deposito di tre diverse decisioni a Sezioni unite (n. 29459, n. 29460 e n. 29461), la Corte di Cassazione respinge le ordinanze di rimessione che sostenevano la natura retroattiva del decreto legge n.113 del 2018 (il cosiddetto Decreto Sicurezza o Decreto Salvini).
Ma la disattenta lettura del verdetto e la “solita propaganda” hanno sollevato un gran polverone (a questo proposito si legga l’ottimo pezzo di Fulvio Vassallo Paleologo su Adif, “Per la Cassazione l’abolizione della protezione umanitaria non ha effetto retroattivo, ma la propaganda leghista scambia il torto con la ragione”).
La sentenza, di fatto, non accoglie il ricorso del Viminale, come quasi tutta la stampa mainstream ci ha voluto far credere. Anzi.
Sarebbe proprio il caso di fare chiarezza su quanto espresso, in modo cristallino, dagli Ermellini in materia.
Innanzitutto, la Suprema Corte ha sciolto il nodo in merito al contrasto giurisprudenziale relativo alla immediata applicazione o meno della parte del decreto legge n. 113/2018 (convertito in legge n. 132/2018 – cd. Decreto sicurezza) che ha abrogato l’art. 5, co. 6 TU immigrazione d.lgs. 286/98 (quello che consentiva anche alle Commissioni territoriali di riconoscere al richiedente asilo la protezione umanitaria, se rifiutata la protezione internazionale). Un tema, questo, molto controverso e dibattuto, in merito al quale diversi Tribunali si sono espressi già nei mesi addietro.
In realtà, come fa ben rilevare ASGI in una nota, sono solo due le pronunce che hanno ritenuto immediatamente applicabile il decreto sicurezza a tutti i procedimenti in corso, a fronte di una gran parte della giurisprudenza di legittimità (tra tutte la sentenza n. 4890/2019, per un approfondimento vedi qui), secondo cui la riforma del 2018 non poteva applicarsi alle domande presentate prima della sua entrata in vigore, e per il riconoscimento della protezione umanitaria, davano rilevanza all’inclusione sociale del richiedente asilo in Italia.
Stabilito che il diritto alla protezione “sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”, la Suprema Corte ha precisato, quindi, quale sia la normativa di riferimento per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposto prima dell’entrata in vigore della nuova legge (la legge 132/2018). Le richieste d’asilo dovranno essere scrutinate sulla base delle disposizioni esistenti al momento della loro presentazione. In questo caso, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del Dl 113 “comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali”, come previsto dall’articolo 1, comma 9 del citato Decreto legge.
Preso, dunque, atto di questa chiara e limpida pronuncia sulla irretroattività della norma, le cose non stanno proprio come l’ex Ministro dell’Interno vorrebbe farci credere con le sue solite dichiarazioni a mezzo social.
Per quel che concerne, infatti, il tema della protezione umanitaria, i giudici di legittimità hanno precisato come “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”, ovvero la nuova condizione personale acquisita in Italia attraverso i percorsi d’integrazione lavorativa e sociale (art. 8 CEDU), senza che l’attività lavorativa possa considerarsi come unico requisito della protezione invocata.
La Suprema Corte ha disposto un processo d’appello-bis (annullando quindi con rinvio le precedenti decisioni poi impugnate dal Ministero dell’Interno), che tenga conto dei principi enunciati con le sentenze. “Non può essere riconosciuto – scrivono ancora i giudici della Suprema Corte – al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza“.
Quello che Asgi sottolinea nella sua nota è di notevole importanza: “Sono del tutto fuorvianti e manipolatorie le affermazioni secondo le quali le Sezioni Unite della Cassazione avrebbero dato ragione all’ex ministro dell’interno, padre del decreto sicurezza. E’ vero l’esatto contrario, perché quel decreto legge n. 113/2018 ha eliminato una clausola di salvaguardia dell’intero sistema (anche) della protezione internazionale, senza preoccuparsi né dell’esistenza di precisi obblighi costituzionali ed internazionali sottesi all’art. 5, co. 6 TU immigrazione, né degli effetti che l’abrogazione del permesso di soggiorno avrebbe provocato. Tra essi possono annoverarsi l’abnorme percentuale di rigetti delle domande di protezione internazionale, l’aumento vertiginoso del contenzioso giudiziale con danni enormi alle finanze pubbliche, la creazione di una moltitudine di irregolari, esposti a sfruttamento lavorativo e che favoriscono il lavoro nero, con ulteriori danni all’erario pubblico”.
Come è stato spiegato sempre da Asgi in un articolo pubblicato su Fanpage.it, l’ex ministro del’Interno ha restituito una lettura distorta del verdetto. Ma, come si diceva, il contenuto del decreto Sicurezza non ha alcuna relazione con i permessi di soggiorno per motivi umanitari (Salvini con il dl Sicurezza voleva cancellare il diritto a richiedere questa protezione, ndr) e la Cassazione, in una precedente sentenza del 23 febbraio 2018, la 4455/2018 (per un approfondimento qui), aveva già indicato la necessità, per il riconoscimento della protezione umanitaria, di effettuare la comparazione tra la condizione del richiedente asilo in Italia e la condizione di vulnerabilità cui sarebbe esposto nel Paese d’origine, che deve essere valutata dal giudice. Nulla di nuovo insomma, con buona pace dell’ex ministro e di tutta una fetta di stampa che, come lui, ha fornito una informazione fuorviante in merito all’esito delle sentenze. Sarebbe bastato leggerle con più attenzione, anziché correre dietro a post Facebook e Tweet non veritieri.