Il campo rom è forse una delle più potenti allegorie contemporanee: sull’immagine del campo rom – che per la sua stessa natura di ghetto metropolitano in pochi conoscono direttamente – si riversano significati e stati emotivi collettivi e senza frontiere. Nessuno vuole un campo rom sotto casa. E campo rom sta per: sporcizia, paura, povertà estrema. Come il rom, anche la sua “casa” rappresenta per molte persone il “totalmente altro” da sé. L’Italia, poi, è un posto tutto particolare. Perché sebbene insediamenti precari di rom esistano in molte altre parti del mondo, l’Italia è conosciuta per essere il paese che ha inventato la politica dei campi. Solo da noi le amministrazioni pubbliche hanno abbracciato il campo rom come modello duraturo. Anzi, sarebbe il caso di dire perpetuo, tanto per sottolineare ironicamente il fatto che i primi campi rom nacquero in Italia per dare alloggio a popolazioni considerate nomadi, anche se nomadi non erano affatto. In questi anni nei campi rom italiani sono nati cresciuti e morti donne e uomini rom. Italianissimi (il più delle volte non per documento) e stanziali ormai senza alcuna ombra di dubbio. Ma la loro casa è sempre stato un container, o una roulotte. Un container o una roulotte assegnate, con l’atteggiamento della carità, a un nucleo famigliare – perché, si sa, il rom è per sua natura “familista” – con scarsissime possibilità di contrattare variazioni all’interno di quel nucleo: matrimoni, nascite, divorzi, morti.
La politica dei campi è stata analizzata da diversi documenti nazionali e internazionali. Ora, grazie a un lavoro di Berenice, Compare, Lunaria e OsservAzione, arriva anche una prima analisi dei costi della politica dei campi in tre città: Roma, Milano e Napoli. Lo scopo dello studio non è certo quello di ridurre la questione dei campi rom a un mero problema di costi, bensì – scrivono gli autori – a fornire elementi di riflessione sui costi di una vera e propria “economia del ghetto”. Il titolo dello studio d’altronde è esemplificativo: segregare costa. Il lavoro ha cercato di mettere insieme i dati forniti da documenti ufficiali e quelli forniti direttamente dalle pubbliche amministrazioni interpellate. Ma non è stato facile, in nessuna delle tre città, risalire ai dati effettivi che in alcuni casi sono quindi parziali o incompleti. Il motivo è dovuto all’impossibilità di estrapolare questi dati, spesso inglobati in spese più generiche, ma anche alla reticenza di alcune amministrazioni nel fornire informazioni.
In ogni caso è possibile individuare alcuni “temi portanti” dell’economia del ghetto e della segregazione. Intanto, in tutte le città, la spesa principale è assorbita dalla infrastruttura in sé: costi per mantenere in vita il campo. A Napoli, dove esiste un solo campo autorizzato – quello di Secondigliano – sono stati spesi tra il 2005 e il 2011 quasi due milioni di euro. Più di un milione mezzo per fornire l’acqua il resto per fornire energia elettrica e per la manutenzione. A Roma tenere in piedi i campi è costato circa 69,8 milioni di euro, ma i dati non sono semplici da decifrare per la loro genericità: per la gestione dei campi (19,9 milioni di euro), per effettuare investimenti (12,6 milioni), per gli interventi curati dall’Ama (9,4 milioni) e per la bonifica delle aree (8,1 milioni). Infine, 6,5 milioni di euro sono stati allocati sulla voce “Lavori campi” per gli interventi di manutenzione e 2,4 milioni per servizi vari a sostegno delle famiglie rom. A queste risorse si aggiungono i 9,3 milioni di euro stanziati per i progetti di scolarizzazione dei bambini che vivono nei campi.
A Milano la spesa per la gestione dei campi è di circa 812.000 euro per il biennio 2005-2006 e 840.000 euro per il triennio 2008-2011. Quest’ultima cifra è tuttavia parziale, in quanto non tiene conto di diverse voci di costo tra cui il progetto di mediazione culturale per i minori rom inseriti nelle scuole primarie, rifinanziato nel triennio 2008-2011 con uno stanziamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e il costo delle utenze e della raccolta rifiuti di tutti i campi comunali. A Milano però va anche considerata la spesa pari a mezzo milione di euro per installare un sistema di videosorveglianza nei campi, intervento deciso nel 2007 quando – segnala il rapporto – nel capoluogo lombardo l’amministrazione comunale decide per un approccio decisamente più securitario. Ci sono poi gli interventi di scolarizzazione dei minori rom, e certamente anche qualche intervento a sfondo culturale: inezie rispetto al resto degli impieghi. A cui vanno sommati i costi degli sgomberi – che non sono mai facili da accertare. Ma per farsi un’idea basti tener conto che la spesa media si aggirerebbe – secondo il rapporto – tra i 15 e i 20 mila euro e che solo in un anno a Roma – tra il 2009 e il 2012 l’Associazione 21 luglio ha censito 450 sgomberi.
Insomma, un grosso dispendio di risorse. Ma i risultati? Il rapporto è molto duro nelle sue conclusioni che evidenziano una costruzione del discorso strumentale da parte delle pubbliche amministrazioni: “Per giustificare il mantenimento dei “campi nomadi” e sostenere l’impossibilità di immaginare percorsi di inserimento abitativo e sociale alternativi dei rom e dei sinti si afferma generalmente che non ci sono risorse pubbliche sufficienti, veicolando così il messaggio secondo cui i campi costituiscono la soluzione abitativa meno costosa che le amministrazioni locali possono adottare per ospitare i rom – si legge nel rapporto – ma non è così.” Gli interventi sociali di formazione e inserimento lavorativo a questi collegati non hanno peraltro raggiunto risultati significativi in termini di una reale autonomizzazione delle persone. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso”, conclude il Rapporto. Auspicando che i “piani nomadi” vengano sostituiti finalmente da “piani di chiusura dei campi nomadi”.
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