La Sea Watch 3 da 14 giorni vaga al largo di Lampedusa con 42 persone a bordo (tra cui un bambino di 12 anni e altri 2 minori) estremamente vulnerabili e in condizioni di salute precarie. Questo è il primo dato di fatto.
Quando, ieri, 25 giugno, la Cedu ha respinto il ricorso che la capitana della nave, la 31enne Carola Rackete, ha presentato il 12 giugno, a suo nome e a nome dei migranti a bordo, siamo stati messi di fronte ad una nuova constatazione. La CEDU ha chiesto al governo italiano di continuare a fornire assistenza all’imbarcazione, ma ha respinto la richiesta cautelare di «un porto sicuro» avanzata nel ricorso, adducendo come motivazione quella di non aver rilevato un “rischio di danni irreparabili”, ai sensi dell’articolo 39 del regolamento, tale da ordinare all’Italia lo sbarco. Come se la nave che ha effettuato il salvataggio rappresenti essa stessa una sorta di “porto sicuro galleggiante”, in cui i diritti umani fondamentali non siano in pericolo. Come se lo stress e la sofferenza di tanti giorni in mare non siano considerate condizioni abbastanza disumane tali da concedere lo sbarco (anche se, lo ricordiamo, la Cedu si pronunciò allo stesso modo sempre con la Sea Watch alcuni mesi fa, quando poi lo sbarco fu autorizzato a Catania).
Le motivazioni addotte dalla Corte di Strasburgo per respingere le misure cautelari (ovvero l’ordine di sbarco in un porto sicuro) richieste dal team legale di Sea Watch sono, secondo buona parte dei giuristi, in contrasto con la precedente giurisprudenza della Corte e con quanto detto negli ultimi mesi dall’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, dall’UNHCR, dagli avvocati internazionali che hanno denunciato l’Italia e l’Unione Europea alla Corte penale internazionale.
La Sea Watch ha adito la CEDU, estrema ratio, dopo che già il Tar Lazio aveva respinto un altro ricorso della Ong tedesca contro il divieto di ingresso firmato dai ministri Salvini, Toninelli e Trenta il 15 giugno in applicazione del cosiddetto “decreto sicurezza bis” (il primo “divieto ministeriale di ingresso” nelle acque territoriali italiane ai sensi del nuovo art. 11, co. 1- ter T.U. imm.).
Quindi, da ieri continuiamo a ripeterci: ma davvero la politica ha battuto i diritti umani? A che serve dunque invocare gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani) della Convenzione europea oggi dopo questa pronuncia?
Di fatto la CEDU ha stabilito che al diritto di essere salvati in mare nelle acque internazionali, non si aggiunge, de plano, quello di scegliere il posto di disimbarco ed il Paese di immigrazione, se non vi sono condizioni di “urgenza”.
Eppure i naufraghi a bordo continuano a ripetere «Non ci lasciate qui sopra, la barca è piccola e noi siamo tanti, siamo scappati dal carcere in Libia e non ce la facciamo più» (noi ne abbiamo parlato ieri qui).
Quanto deciso adesso dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo va anche in contrasto con la chiara posizione rappresentata pochi giorni fa dal Commissario per i diritti umani dello stesso Consiglio d’Europa. Infatti, dopo l’entrata in vigore, in Italia, del c.d. decreto sicurezza-bis, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha emanato una raccomandazione dall’eloquente titolo: Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean (leggi qui per approfondire).
Intanto, agli appelli di solidarietà lanciati da Bruxelles – che però, restano mera retorica senza un seguito concreto -, o dagli attivisti di Lampedusa, si aggiunge la dichiarazione di Mauro Palma, Garante nazionale dei Diritti per i detenuti, organismo indipendente che si occupa della tutela dei diritti fondamentali delle persone sottoposte a privazione della loro libertà. Il Presidente esprime tutta la sua preoccupazione per il deteriorarsi giorno per giorno della situazione creatasi sì in acque internazionali, ma pur sempre vicino ai confini italiani. Tuttavia, il Garante nazionale, non potendo né volendo intervenire su scelte politiche che esulano dalla sua competenza, in un comunicato, invita a cessare “eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale”. In particolare, il Garante “ribadisce che le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati”. Cosi, anche lui in estrema ratio, ha trasmesso all’Autorità giudiziaria eventuali ipotesi di reato ai danni di persone detenute o private della libertà di cui abbia avuto conoscenza, presentando un esposto alla Procura della Repubblica di Roma per richiedere una verifica su eventuali aspetti penalmente rilevanti nell’attuale blocco della Sea Watch 3 (qui comunicato e esposto).
Già due giorni fa, il 24 giugno, intervistata da Repubblica, Carola Rackete si era detta pronta a forzare il blocco dell’Italia per fare sbarcare i migranti salvati nel Mediterraneo (e lo ribadisce oggi con un tweet). Ma questa scelta comporterebbe automaticamente l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e forse anche di “associazione a delinquere”, oltre che il sequestro della nave.
Stamane, 26 giugno, la ong tedesca ha chiesto un aiuto per la sua assistenza legale. «Se il nostro capitano Carola porta i migranti salvati dalla Sea Watch 3 in un porto sicuro, come previsto dalla legge del mare, affronta pene severe in Italia (ossia una multa fino a 50mila euro e la confisca dell’imbarcazione, ndr)», spiegano in un tweet dalla Sea Watch, invitando a donare al fondo dell’associazione per «aiutare Carola a difendere i diritti umani»
Dopo il respingimento della richiesta di misure cautelari, il ricorso della Sea Watch 3 dovrà essere esaminato “nel merito”, con i tempi standard della Corte. Ci vorranno anni per la pronuncia definitiva: troppo per garantire una tutela effettiva immediata ai naufraghi a bordo in questo momento.
“La decisione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, un atto di “ignavia”, se non peggio – commenta Fulvio Vassallo Paleologo in un interessante articolo pubblicato su ADIF – che si ricordi bene, riguarda solo la misura cautelare (ordine di ingresso in porto) richiesta dal comandante della nave e da alcuni naufraghi. Nonostante questa elementare considerazione, che i grandi media nascondono, sta avendo un impatto enorme sull’opinione pubblica ed alimenta l’arroganza del ministro dell’interno italiano che rilancia la sua sfida ai diritti umani ed ai cittadini solidali”.
In realtà, questa pronuncia è stata una doccia fredda un po’ per tutti (meno che per il ministro dell’Interno che esulta). E’ una decisione che ci fa provare estrema vergogna dinnanzi al fatto che ben 28 governi europei assistano indifferenti a questa negazione dei diritti umani di 42 persone. Intanto, si stanno moltiplicando gli appelli, i presidi e le veglie a sostegno della Sea Watch 3.
Alle 14.04, l’annuncio via Twitter: “Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo”. La Sea-Watch 3 è entrata in acque italiane alle due meno dieci. E già dopo qualche minuto delle motovedette della Guardia di Finanza si sono dirette verso la nave.
Non si può mollare in questo momento. I diritti non possono e non devono affondare.