Sono storie tristi quelle che ci giungono dalle campagne del ragusano. Storie di violenze e di sfruttamento. Storie di donne migranti sole, magari con figli piccoli. Storie inaccettabili e sottaciute.
Ma con tristezza e rabbia ancor più grande, scopriamo che la storia di Luana, cittadina rumena, che si è ribellata al suo datore di lavoro perché sfruttata e violentata, riportata in un articolo di ieri, non è recente, ed è soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno che neanche immaginiamo.
Infatti, la vicenda è tornata a galla durante un seminario su “La tratta di esseri umani in Europa e in Italia”, organizzato dall’associazione Ciss di Palermo. Ma è una storia già denunciata nel settembre 2014, attraverso un’indagine de L’Espresso, che a sua volta, ha preso le mosse da una ricerca condotta da Alessandra Sciurba dell’Università di Palermo. E purtroppo, nonostante la gravità dei fatti, non ha avuto “l’onore” di essere diffusa e denunciata abbastanza.
L’indagine parla del “nuovo orrore delle schiave romene” a Vittoria. Di fatto, l’analisi è interessante perché spiega come, nelle campagne, i lavoratori rumeni, a partire dal 2007, abbiano lentamente soppiantato quelli tunisini, chiedendo, rispetto a quest’ultimi, dei salari nettamente inferiori. Ma, ancor più interessante è la filiera migratoria al femminile. Una novità. Le donne tunisine non partecipano alla vita dei campi. Quelle rumene si, andando a creare una nuova e odiosa forma di doppio sfruttamento: agricolo/lavorativo e sessuale. Il silenzio dell’agro e i casolari isolati sono ottimi alleati, anche per segregare ulteriormente, per nascondere. Qualcuno aggiunge la “mentalità omertosa”. Ma di fronte a questo nuovo orrore, non vi sono giustificazioni di sorta. Il quadro della situazione è terribile, poiché sovrappone alle vecchie forme di sfruttamento (accompagnate dai bassi salari, dalle condizioni abitative ai limiti della decenza, tanto da chiedere l’intervento degli operatori sia di Emergency che di Medici Senza Frontiere, quasi fosse una zona di “guerra”, e non un distretto produttivo), nuove prospettive, come quella dello sfruttamento sessuale delle lavoratrici (che porta con se anche l’angosciante fenomeno degli aborti, molti dei quali clandestini).
Nelle cronache nazionali, non vi è traccia. Eppure, il fenomeno dello sfruttamento delle donne straniere in campagna, non è una vicenda che si conosce solo dall’altro ieri e grazie all’inchiesta de L’Espresso, bensì pare che s’insinui sotterraneamente nel tessuto del territorio da diversi anni. Eppure, nel giorno in cui in Prefettura si discute dei problemi dello sfruttamento del lavoro femminile in agricoltura e degli abusi sessuali nei confronti di alcune lavoratrici straniere, a seguito dell’inchiesta dell’Espresso, la notizia dell’ennesimo episodio di molestie sessuali nei confronti di una donna rumena, ancora una volta non desta attenzione.
Eppure, sempre all’indomani dell’inchiesta de L’Espresso, pare ci sia stata la visita di una delegazione parlamentare (Ansa del 16 ottobre 2014), giunta sul posto per analizzare la situazione delle donne straniere nelle campagne del ragusano.
E ancora. Nell’ottobre 2014, persino un parroco della zona si è visto minacciare (da chi?, ndr) per aver denunciato (lo ha fatto attraverso la radio vaticana) i cosiddetti “festini agricoli”, ovvero delle feste nei casolari, dove i “padroni” insieme agli amici cercano “sollazzi” costringendo le giovani donne straniere, per lo più cittadine rumene, a cedere alle loro richieste.
Quindi, nonostante tutte queste premesse, ci chiediamo come mai non siano ancora state prese delle misure adeguate. Come mai non se n’è parlato abbastanza.
Ma, torniamo alla storia-simbolo di Luana. Quaranta anni, due figli a carico, dopo il suicidio del marito in Romania. Lavora in una serra sperduta nell’agro ragusano e vive in un casolare fatiscente poco lontano. Una vita di stenti e sacrifici. Il suo “padrone” si offre di accompagnare a scuola i due piccoli, viste le enormi difficoltà del tragitto da percorrere, lungo e pericoloso. Ma non senza un “ritorno”. L’uomo la chiama, la assilla anche in piena notte. Le fa richieste sessuali pressanti. Lui vive poco distante con la moglie e un figlio. Luana teme soprattutto le minacce dell’uomo, ha paura per i figli. Luana sopporta tutto e a lungo. Anche quando lui la minaccia con la pistola. Ma, quando le dice, per ripicca, che non porterà più i bambini a scuola, e non darà più acqua da bere, Luana decide di fuggire. Viene accolta e protetta nel centro dell’associazione “Proxima”, e inserita nei programmi destinati alle “vittime di tratta”. Come se si trattasse di una storia di prostituzione. Dopo un mese, decide di andare via. E torna a lavorare nuovamente nelle serre. Forse per mancanza di alternative valide, di un percorso che la faccia reinserire nella società. Torna nelle serre e non sappiamo più nulla di lei. Anche se significherà prendere un salario da dieci euro al giorno, sopportare temperature di fuoco, e respirare veleno. In tutti i sensi.