Decine di volte ho scritto, in saggi e articoli, contro i lager di Stato o, se l’espressione vi sembrasse eccessiva, dei Guantanamo italiani. Ma altra cosa è essere messa brutalmente di fronte alla loro realtà materiale e umana, alla loro concreta essenza d’istituzione totale.
Alla sproporzione paradossale e funesta tra il numero di forze dell’ordine, di ogni corpo, e quello degli internati, attualmente 55 uomini e 18 donne. All’orrore di lunghi, allucinanti corridoi di sbarre, dove i più camminano come fantasmi e qualcuno urla senza sosta la propria angoscia. All’agitazione contagiosa di persone, anche giovani, cui è stata inflitta la “doppia pena”: il lager subito dopo il carcere. Allo squallore di camerate prive d’ogni arredo e colore. Allo stanzino angusto e senza finestre, con un logoro materassino di gommapiuma gettato sul pavimento come giaciglio.
Qui, secondo la spiegazione dei nuovi gestori del Cie di Ponte Galeria, sono isolati certi “utenti” (è il loro lessico), quelli che hanno bisogno di assistenza o sorveglianza “perché non si facciano del male”. Qui ha trascorso la serata e la notte tra il 6 e il 7 febbraio un giovane internato, forse di nazionalità siriana, reduce da un intervento chirurgico per essersi tagliato, con un oggetto affilato, l’incavo del gomito destro, per protestare contro il diniego di qualcosa che gli era dovuto.
Ha passato quella notte in compagnia delle forze dell’ordine, che non devono avergli riservato cure troppo amorevoli, né devono essersi commosse oltre misura ai suoi pianti e alla disperazione. Fatto sta che l’indomani mattina, aveva il braccio talmente gonfio da richiedere una nuova visita in ospedale, alla quale seguirà, sembra, una seconda operazione.
Non prendo per oro colato ciò che dicono alcuni testimoni dall’interno del Cie, a proposito d’una presunta istigazione all’atto autolesionistico da parte di un rappresentante delle forze dell’ordine. Ma non sarebbe troppo sorprendente: lo schema più consueto di un tal genere di atti nei lager per migranti contempla la provocazione di qualcuno “che sta sopra”. Il lager di Ponte Galeria ha una storia ragguardevole di autolesionismo “politico”, si potrebbe dire: basta citare le due proteste, dette delle bocche cucite, messe in atto rispettivamente a gennaio e a luglio del 2014.
Si consideri, inoltre, che lì agli internati è proibito tenere perfino penne e matite, meno che mai, evidentemente, lamette e altri oggetti taglienti. Lo ho potuto constatare di persona il 27 gennaio scorso, durante la visita in quel Cie, compiuta insieme con Gabriella Guido, di LasciateCIEentrare, Daniela Padoan, portavoce dell’eurodeputata Barbara Spinelli e altri.
Sarebbe opportuno, dunque, che s’indagasse sulla dinamica che ha indotto un così giovane internato a tagliarsi vene e tendini. Del pari, converrebbe verificare le voci numerose –d’internati ed ex internati– che dicono di una “squadretta” delle forze dell’ordine, talvolta accompagnata da cani (anch’essi vittime di quel sistema), pronta a intervenire con modi non troppo gentili nei confronti dei più agitati fra gli “utenti”.
Quel venerdì mattina del 6 febbraio, l’immagine del giovane siriano che perdeva sangue copiosamente aveva scatenato una rivolta, con l’usuale corollario del rogo di materassi (saranno stati sostituiti con letti più decenti?). Rivolta effimera e vana: tutto sembra tornato come prima, se non fosse per l’attenzione da parte di alcuni rappresentanti della “società civile” e delle istituzioni (tra i quali, la già citata Barbara Spinelli).
Le loro regolari visite e denunce, però, sembrano incidere poco sulla struttura e sulla routine di quell’isola concentrazionaria, così come di altre simili. Se non per alcuni dettagli, nondimeno d’una certa importanza. Nel corso della visita più recente, il 9 febbraio, la stessa Gabriella Guido nonché Valentina Brinis, dell’associazione “A Buon Diritto”, e una delegazione di radicali hanno potuto constatare che nelle camerate degli internati il sistema di riscaldamento era fuori uso da ben dodici giorni. Funzionava perfettamente, invece, nell’area destinata al personale. E’ stato rimesso in funzione dopo il loro arrivo.
Ma può accadere anche che a visite di tal genere seguano atti illegittimi ai danni degli internati: ritorsioni o solo casuali coincidenze nefaste? Il giorno dopo la nostra visita del 27 gennaio, il console nigeriano è entrato nel Cie per identificare diciannove suoi concittadini da rimpatriare. Il 29 gennaio i diciannove, compreso un giovane richiedente asilo in sciopero della fame e in condizioni di salute assai precarie, sono stati deportati in Nigeria con un charter dell’Agenzia Frontex: un caso di scandalosa violazione di direttive europee, della Carta dei diritti dell’UE, dello stesso articolo 10 della nostra Costituzione.
Le condizioni del Cie sembrano nettamente peggiorate dacché all’Auxilium, ente gestore fin dal 2010, è subentrata, il 15 dicembre scorso, l’Associazione Acuarinto di Agrigento: facente parte di un raggruppamento d’imprese guidato dalla Gepsa, una SpA francese che si occupa di penitenziari, a sua volta filiale di Cofely, holding dell’energia, controllata dalla multinazionale Gdf-Suez.
L’appalto è stato ottenuto grazie alla drastica riduzione dei costi, del personale e dei servizi garantiti. Si immagini cosa voglia dire, in una situazione così esplosiva, il ridimensionamento del servizio di assistenza psicologica, l’assenza di riscaldamento, la riduzione non solo di cibo, sigarette, tessere telefoniche, ma anche degli oggetti più basilari per il decoro personale. Sempre più si ribelleranno, le nonpersone dette ipocritamente utenti, affermando così la pienezza della loro umanità.
(Versione aggiornata e modificata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 10 febbraio 2015)