Si è tenuta ieri, domenica 15 febbraio 2015, nella piazza di Sant’Antimo, nel napoletano, l’ennesima protesta “contro la schiavitù e per affermare il diritto alla giustizia dei lavoratori che hanno denunciato i loro aguzzini”. L’ennesima, si. Perché si tratta della lunga e complessa vicenda che vede coinvolti, da oltre un anno, alcuni lavoratori del tessile, cittadini bengalesi, che hanno trovato il coraggio di alzare la testa e denunciare la loro condizione di schiavitù e sfruttamento da parte di datori di lavoro senza scrupoli. Questa volta hanno affidato la loro protesta ad una lettera aperta, diffusa grazie all’associazione 3 febbraio (leggi la lettera), che ha sete di giustizia.
La vicenda dei lavoratori bengalesi, sebbene risalga, appunto, a diverso tempo addietro e si protragga a tutt’oggi, non è molto nota alla cronaca nazionale, o per lo meno, non se n’è parlato abbastanza. Già il 9 dicembre 2013, il Corriere della Sera intitolava: “Sartorie lager: parte da Napoli la rivolta contro lo sfruttamento”. Nell’articolo, si parla di ben “centoventi lavoratori del Bangladesh pagati meno di 300 euro al mese da un loro connazionale, che gestisce quattro stabilimenti tessili in provincia di Napoli, tra Sant’Antimo, Casandrino e Grumo Nevano. Turni di lavoro massacranti: dalle 6.30 del mattino alle nove e mezza di sera, sei giorni su sette. La domenica dalle otto di mattina alle cinque di pomeriggio”. All’epoca, un legale aveva deciso di indirizzare all’imprenditore una diffida per degli emolumenti arretrati. E ce lo conferma Giancarlo Petruzzo dell’associazione 3 febbraio, da noi raggiunto telefonicamente.
Nel febbraio 2014, scatta una nuova protesta. Lo racconta anche il Corriere delle Migrazioni, denunciando lo stesso e immutato sfruttamento dell’anno precedente: “Quattordici ore di lavoro al giorno, senza pause. Dal lunedì al sabato, si inizia alle 6.30 del mattino e ci si ferma alle 20.30. Lavorano anche la domenica, gli schiavi di Sant’Antimo: dalle otto di mattina alle cinque di pomeriggio. La paga non supera mai i tre euro all’ora”. «In qualche caso, abbiamo anche saputo di padroni che, per ricattare i propri dipendenti, sequestrano loro il passaporto per impedirgli di muoversi e cercare lavoro altrove», precisa ancora Gianluca Petruzzo. Un video pubblicato su Youtube testimonia la protesta di quei giorni.
Anche l’Asgi, con un comunicato, decide di sostenere i lavoratori bengalesi «in ogni iniziativa e percorso giudiziario si voglia intraprendere e auspica che, in una corretta interpretazione della normativa esistente, vengano rilasciati alle vittime di tali gravi condotte gli speciali permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale ai sensi dell’art. 18 D.Lgs. 286/98 (Testo Unico Immigrazione), ovvero quelli per motivi umanitari previsti dall’art. 22 co. 12quater D.Lgs. 286/98». Cosa che effettivamente, nel giugno 2014, avviene per i primi cinque cittadini bengalesi che hanno avviato la protesta.
E così, nel corso del 2014, si susseguono numerose assemblee-manifestazioni fino a giungere a quella di oggi. Alla prima causa di lavoro si aggiungono vere e proprie cause penali relative a un fenomeno di tratta: gli operai arrivano dal Bangladesh, con un copione ormai collaudato, in cambio di cospicue somme di denaro, ricevono un visto d’ingresso, un passaggio e la promessa di un lavoro sicuro e ben pagato. Chi non ha il capitale iniziale, “ovviamente”, recupererà una volta in Italia, lavorando gratis, mentre il padrone in questione si occupa di tutto (documenti, alloggio, ecc…).
Ad oggi, il datore di lavoro di questi lavoratori risulta libero, mentre i giovani migranti che lo hanno denunciato sono vittime costanti di numerose minacce e ritorsioni. Da ultimo, una denuncia con false accuse nei loro confronti, per tentare di metterli a tacere e scoraggiarli. La protesta continua e si spera, d’ora in avanti, che colta la gravità dei fatti, venga fatta chiarezza e giustizia.