Come ampiamente previsto (e temuto) da varie organizzazioni della società civile, il provvedimento di emersione del lavoro irregolare che si è concluso lunedì 15 ottobre ha registrato il numero di richieste più basso nella storia tutta italiana delle cosiddette “sanatorie una tantum”. 134.576 le domande presentate alla scadenza dei termini, grandissima parte delle quali (l’86%) riguardano rapporti di lavoro domestico e familiare.
Le ragioni di questo fallimento annunciato (laddove le stime della presenza dei lavoratori stranieri irregolari, da prendere sempre con beneficio di inventario, parlavano di 350-380.000 persone) erano state individuate da subito dalle associazioni antirazziste, dai sindacati e dai giuristi dell’Asgi nei requisiti (veri e propri filtri ostativi all’emersione) previsti dal provvedimento (redditi alti richiesti ai datori di lavoro, prova di presenza certificata da un ente pubblico non meglio specificato fino al 4 ottobre, possibilità, per quanto riguarda i settori di lavoro diversi da quello domestico, di regolarizzare solo rapporti di lavoro full-time, onerosità della contribuzione pregressa da versare). Ne abbiamo già parlato e non ci torniamo.
Vale la pena invece soffermarsi sulla “logica” che sottende questo, come i provvedimenti similari che lo hanno preceduto, e che contribuisce anche a impedire riforme lungimiranti che intervengano a garantire i diritti di cittadinanza.
Sin dalla approvazione della legge 40/98 le politiche migratorie si sono fondate sull’assunzione aprioristica dell’esistenza di una distinzione netta tra migranti regolari e irregolari. Come se migrare in modo irregolare fosse una scelta del migrante. Si tratta di una mistificazione condivisa nel mondo dei cosiddetti “decisori politici e istituzionali”, indipendentemente dalla loro appartenenza politica.
Ma se fosse relativamente facile entrare regolarmente in Italia e risiedervi per un certo periodo di tempo per cercare un’occupazione, sicuramente il numero di coloro che “sceglierebbero” di entrare o permanere irregolarmente sul territorio italiano diminuirebbe.
L’altra e altrettanto rilevante ipotesi è che l’ampliamento e la diversificazione dei percorsi di ingresso regolare per motivi di lavoro o di ricerca di lavoro avrebbe un “effetto di richiamo” non sostenibile per il nostro paese. Da qui la scelta di emanare decreti flussi quasi sempre numericamente inferiori alla reale domanda di lavoro straniero presente sul territorio e di stigmatizzare come non ricevibile una proposta avanzata da alcuni anni, in primo luogo da Asgi e Magistratura democratica, ma poi da molte organizzazioni tra cui la nostra. Si tratterebbe di sostituire la prassi delle sanatorie “una tantum” con l’introduzione di meccanismi di regolarizzazione ordinari che consentano di acquisire un permesso di soggiorno per lavoro in presenza di alcuni requisiti definiti per legge. Requisiti, che ovviamente, dovrebbero avere la finalità di facilitare la fuoriuscita dalla irregolarità anziché l’obbiettivo di ostacolarla come è successo con quest’ultimo provvedimento. In sostanza chi nei fatti è inserito nella società italiana dovrebbe avere la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno senza dover attendere un nuovo decreto flussi (utilizzato fino ad oggi impropriamente per regolarizzare i lavoratori già presenti in Italia) o una nuova sanatoria.
Si tratta per altro di adeguare la legge alla realtà dei fatti essendo chiaro a chiunque che un sistema migratorio basato sull’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro non può funzionare.
Che la crisi economica attualmente in corso abbia effetti negativi anche sulla domanda di lavoro straniero è indubbio e i dati dell’Istat lo confermano; ciò può sicuramente aver scoraggiato i datori di lavoro dall’assumere la manodopera che impiegano al nero.
La concentrazione delle domande presentate nel settore domestico suggerisce però di ipotizzare anche che la richiesta di versare i contributi pregressi, molto più onerosi per i datori di lavoro che operano negli altri settori del mercato del lavoro, abbia contribuito non poco a scoraggiarli dal presentare la domanda o da camuffarla con la richiesta di regolarizzazione di un rapporto di lavoro domestico.
E’ stato obiettato che il provvedimento di emersione appena varato è del tutto simile a un condono e come tutti i condoni avrebbe l’effetto nefasto di far pensare ai datori di lavoro che possono utilizzare lavoro al nero perché prima o poi avranno sempre la possibilità di mettersi in regola. Questa volta però c’è una novità: in base al dlgs.109/2012, i lavoratori che sono sottoposti a gravi condizioni di sfruttamento potranno denunciare i loro datori di lavoro che rischieranno fino a 7500 euro di multa e fino a quattro anni e mezzo di reclusione, avendo per altro diritto a un permesso di soggiorno per il periodo di durata del processo. Una sia pur minima garanzia in più per i lavoratori stranieri: chissà che non modifichi almeno un po’ la situazione. L’unica vera novità positiva nel contesto di un provvedimento complessivamente fallimentare.