Ieri, martedì 6 dicembre, a San Basilio, periferia est di Roma, circa quaranta persone hanno protestato contro l’accesso di una famiglia di origine marocchina – padre, madre e tre figli – in un appartamento regolarmente assegnato dall’Ater, l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale del Comune di Roma.
La protesta sarebbe stata scandita da insulti razzisti (“via i negri”, “prima gli italiani”, “qui non vogliamo stranieri”..). Cinque persone sono state denunciate per resistenza a pubblico ufficiale. La famiglia assegnataria della casa popolare ha rinunciato all’abitazione, temendo ritorsioni. La sindaca di Roma Virginia Raggi ha espresso indignazione e solidarietà alla famiglia, annunciando a breve un incontro con la stessa in Campidoglio.
Questo il fatto, di cui va sottolineata la gravità: il dato è che una famiglia, legittima destinataria di un immobile di edilizia popolare a causa della propria condizione economica – donna casalinga e dunque senza stipendio, uomo impiegato come operaio con uno stipendio di 1000 euro al mese, come dichiarato dal vicecomandante della polizia di Roma Capitale Antonio Di Maggio al quotidiano l’Avvenire, e tre figli minorenni- non ha potuto esercitare un proprio diritto a causa della protesta – dalle gravissime sfumature razziste – di alcuni abitanti.
E’ doveroso prendere le distanze dalle offese e dagli insulti, condannandoli. Ogni persona dovrebbe vedere i propri diritti – tra cui quello ad avere un’abitazione dignitosa – garantiti da uno stato presente e rispondente. Proprio su questa osservazione si apre però un altro livello di analisi, che ci impone di approfondire quanto successo in un quartiere che ricorda ogni anno dal 1974 Fabrizio Ceruso, 19enne di Tivoli che l’8 settembre di quell’anno accorreva a San Basilio per supportare la lotta per la casa degli abitanti del quartiere, morto durante gli scontri con le forze dell’ordine. Se sembra fuori luogo andare così indietro nel tempo, si deve sottolineare che è con la consapevolezza della storia di un territorio che se ne comprende il presente, auspicabilmente provando a migliorarlo.
Come ci racconta quell’episodio, il problema della casa a San Basilio è storia vecchia, e ciononostante mai risolta: e se si va a indagare circa quanto successo ieri, lo si intuisce. Come si legge nelle cronache, la famiglia che sarebbe dovuta legittimamente entrare nell’appartamento era accompagnata non solo da un impiegato dell’Ater, ma anche dalla polizia di Roma Capitale: perché? Perché la casa popolare in questione era già occupata: al suo interno si trovava un uomo con il figlio, da quattro anni in camper, e prima per tre anni in una cantina. “Io in questo palazzo ci sono nato. Sono disoccupato. Dopo il divorzio sono stato sfrattato. Prima ho vissuto dentro una cantina, poi in un camper. Ho occupato casa perché mi serve casa. Ho fatto domanda per una casa popolare 25 anni fa. Cosa devo fare? Mi dispiace se quella famiglia è dovuta andare via, io non ce l’ho con loro. Ma anche noi dobbiamo vivere. Datemi una casa e me ne vado”.
Così A. M., intervistato dal quotidiano La Repubblica. Mentre il giornalista afferma che “i condomini si sono opposti al fatto che entrasse una famiglia marocchina”, la voce di una donna sottolinea: “Non al fatto che entrasse una famiglia marocchina. Non deve entrare una persona estranea quando ha bisogno lui. Non è una questione di italiani o stranieri: lui ha vissuto una vita qui, e ora lui ha bisogno. Se fosse stato sgomberato per far entrare una famiglia italiana sarebbe stato uguale: c’è lui in mezzo alla strada”. Nelle parole della donna si esplicita un grave problema sociale che accomuna molte periferie capitoline: la disoccupazione, la mancanza di un alloggio, l’assenza delle istituzioni. Proprio su questo piano è intervenuto monsignor Giancarlo Perego, direttore di Migrantes: “E’ importante che ci sia attenzione alla tutela del diritto, o si metterebbero a rischio le persone più povere. C’è bisogno di investire nell’edilizia popolare. La politica deve rimettere al centro la questione casa. Siamo fermi al piano Fanfani di edilizia popolare degli anni ’50”.
Ma perché, di fronte a un immobilismo istituzionale che di fatto abbandona interi territori – salvo indignarsi, di giunta in giunta, quando i problemi emergono con violenza – le proteste prendono sempre più spesso toni razzisti, che nulla hanno a che vedere con le legittime rivendicazioni di chi è ignorato dai decisori politici?
“Il problema principale è l’individuazione di un nemico”, commenta Federico Giglio, residente a San Basilio, membro del sindacato Asia Usb, che nel quartiere si occupa proprio della lotta per la casa, partecipante della ‘Carovana delle periferie‘ e del Progetto San Basilio, un lavoro di memoria storica sul quartiere.
“Il fatto di oggi è molto triste e rispecchia la condizione delle periferie a Roma e nelle altre città d’Italia, dove il disagio è forte, la disoccupazione anche, e dove i migranti vengono visti come competitori. Una visione influenzata dai media, e da alcuni programmi in particolare, come ‘Dalla vostra parte’, che provano a dividere le persone”. Proprio il programma condotto da Maurizio Belpietro in onda su Rete 4 si trovava ieri nel quartiere romano: e mentre una signora si appellava ai politici chiedendo di fare “il loro dovere, e non andare in televisione”, tutto il programma ruotava intorno ad una presunta competizione tra italiani e stranieri, antagonisti per beneficiare di quelli che dovrebbero essere dei diritti universali.
Come ben esplicita la puntata di “Dalla vostra parte” andata in onda ieri sera, il dibattito politico e mediatico si appiattisce ogni giorno di più su slogan che in quanto tali restano fini a loro stessi, e non su un’analisi delle situazioni aderente alla realtà e propositiva rispetto a un necessario miglioramento.
“E’ vero che molte famiglie composte da immigrati sono ai primi posti delle classifiche per l’assegnazione di case popolari: questo perché versano in condizioni economiche particolarmente svantaggiate”.
Ma la risposta, secondo chi vive sul territorio e da lì si occupa della questione, non può sfociare in una ‘guerra tra poveri’, bensì in una sollecitazione politica: “Non c’è un piano residenziale di edilizia pubblica da 20 anni. Le case popolari sono circa il 3% in Italia” ricorda Giglio.
Nodi di questo tipo si affiancano a una legittimazione costante di un discorso che fa della contrapposizione tra italiani e stranieri il proprio punto focale, e che sfocia in un razzismo verbale aggressivo, ma ciononostante sempre più legittimato, sui giornali, nelle televisioni, e anche nei palazzi della politica. “Oggi le classi più sfruttate sono spinte a essere razziste – afferma Giglio – perché costrette ad assorbire la falsa ideologia propinata nei programmi televisivi che inducono ad identificare un nemico, e il nemico più facile da individuare è proprio lo straniero e il migrante: invece, il nemico è da ricercare nelle scelte politiche“. Gli fa eco Fabiana Sartini, residente del quartiere intervistata da RomaToday: “Credo che per la sua storia San Basilio sia da sempre a Roma il quartiere simbolo degli ‘ultimi’ della società. Il fatto che gli immigrati siano considerati i ‘nuovi ultimi’ e un ‘nemico’ in questa nuova guerra tra poveri credo sia solo il riflesso dell’odio promosso da una certa politica che tende ad alimentare il malcontento distraendo le masse dai veri problemi. Si dà la colpa all’ ‘immigrato’ di turno per qualsiasi cosa. Invece, la lotta per la casa, che si combatte da decenni, non conosce ‘nazionalità’ ma solo ‘necessità’. I nostri nonni e genitori oggi non sarebbero d’accordo con quello che è successo”.
Parole che ci rimandano a una responsabilità collettiva: di fronte a una degenerazione politica e sociale, siamo tutti chiamati a fare la nostra parte. Da una parte, condannando il razzismo e le molte forme che può assumere – una famiglia, legittima destinataria di una casa popolare, ha rinunciato a questo diritto per paura, e questo è un fatto gravissimo su cui non si può soprassedere. Ma anche, dall’altra, andando a fondo delle questioni, chiedendone conto a chi di dovere, senza lasciare che l’appiattimento del discorso pubblico ci distragga dalle reali e concrete responsabilità.
Serena Chiodo