“Crede che sia stato un atto razzista? Penso proprio di sì. Se fossimo stati tre bianchi a rovistare nelle lamiere non ci avrebbero preso a fucilate”.
Drame Madiheri, uno dei due braccianti sfuggiti all’agguato che ha ucciso Sacko Soumayla a San Calogero, risponde così a un giornalista de il Manifesto.
La “verità” non potrebbe essere spiegata in modo più semplice. Quella compiuta a San Calogero è una vera e propria spedizione punitiva, un’esecuzione che segue molte altre minacce subite dai braccianti stranieri che lavorano in condizioni di schiavitù indecenti nella Piana. Un’esecuzione, che come hanno osservato in molti, non avrebbe potuto avvenire senza il permesso della ‘ndrangheta.
Non ci sarebbe da aggiungere altro. O forse sì. Sacko, Drame e Madoufoune Fofana avevano fatto un’ora di strada a piedi per raccogliere pezzi di lamiera nella fornace abbandonata di San Calogero, chiusa da tempo per disposizione della magistratura, perché aveva accolto tonnellate di rifiuti tossici. E lo avevano fatto per evitare che nella baracca dove vive Drame scoppiasse un incendio.
Il Prefetto ieri ha voluto rassicurare i braccianti scesi in sciopero e in corteo a San Ferdinando, dichiarando che “lo stato c’è” e lo dimostrerebbe la nuova tendopoli predisposta dalla Prefettura in cui sarebbero ospitati più di 500 migranti. Ma se oggi, a distanza di sette anni dalla ribellione di Rosarno – scoppiata anche quella a seguito di due agguati compiuti il 7 gennaio a distanza di un’ora a colpi di fucile contro due migranti che rimasero feriti -, centinaia di persone sono costrette a vivere nelle baracche o, se hanno fortuna, nella nuova tendopoli allestita dalla Prefettura, viene da pensare che lo Stato non ci sia abbastanza.
La domanda che andrebbe rivolta al Prefetto è perché l’unica alternativa possibile sia ancora oggi quella tra una baracca e una tenda. Perché per i braccianti della Piana non è possibile vivere in una casa in affitto? Perché è consentito farli lavorare a pochi euro l’ora, senza contratto o con contratti finti? Forse perché in una terra dove non si muove foglia se la ‘ndrangheta non vuole, questa ha tutto l’interesse a mantenere le centinaia di lavoratori agricoli che ogni anno frequentano la piana nella condizione di merce da lavoro da sfruttare il più possibile non solo con paghe da fame, ma anche “ordinando” di non affittare case agli stranieri? Se così fosse una possibile risposta dello Stato sarebbe quella di avviare progetti di accoglienza diffusa, evocati da molto tempo, ma mai realizzati.
Sacko, attivista sindacale che lottava contro tutto questo, ha pagato con la sua vita l’ingiustizia che in queste terre regna sovrana.
Chi vuole nascondere la matrice razzista della sua morte dietro la falsa notizia di un furto si rende complice del mantenimento di questo stato delle cose. L’unica speranza che ci resta è la dignità con cui i braccianti hanno manifestato ieri a San Ferdinando, ricordando che non “sono bestie”, come qualcuno vorrebbe continuare a trattarli.
L’esempio più indecoroso l’ha offerto invece il Governo appena insediato, da cui non si è levata una, una sola parola di solidarietà con la famiglia di Sacko (una bambina di cinque anni e una moglie in Mali) e con i suoi compagni sopravvissuti sino ad oggi. Solo in occasione del voto di fiducia al Senato, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è deciso a ricordare la morte di Sacko Soumayla, rivolgendo il primo “pensiero commosso a lui e ai familiari” del Governo.
Ci sono voluti “solo” due giorni e mezzo.