Mentre i mass media nazionali, e non, sono completamente rapiti dalla questione “reddito di cittadinanza”, mescolando nel dibattito anche la spinosa questione della Tav e dell’approvazione alla Camera della legittima difesa, da ieri, 6 marzo, sono cominciate le operazioni di sgombero del campo informale di San Ferdinando, in Calabria, che da anni accoglie i braccianti stranieri impiegati nelle raccolte della Piana di Gioia Tauro.
Ma più che per lo sgombero in sé o per le condizioni dei migranti, che sono passate nettamente in secondo, se non in terzo piano, il 6 marzo lo ricorderemo come il giorno delle “ruspe”. Sono queste, infatti, le vere protagoniste, fra titoli e immagini, dello sgombero della baraccopoli di San Ferdinando. Questa mattina sono ripresi e proseguiti velocemente i lavori di abbattimento delle baracche. Nel campo, ormai, non c’è più nessuno. I circa 200 migranti che hanno trascorso anche questa notte nelle vecchie baracche di lamiere e plastica, non ci sono più. Una parte di essi è ospitata nella tendopoli gestita dal Comune che dista poche centinaia di metri, al di là della strada, ed una cinquantina sono stati trasferiti in alcuni Cas della regione. La zona resta costantemente presidiata dalle forze dell’ordine, anche se meno rispetto a ieri.
Le ruspe in azione hanno accartocciato le baracche di lamiera costruite sui residui rimasti delle prime tende ministeriali messe su dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno” del 2010. Per i braccianti avevano la parvenza di “case” e alcuni spazi comuni erano stati adibiti a piccoli spacci di beni di consumo, macellerie, luoghi di preghiera.
Lo sgombero iniziato ieri è stato voluto dal ministero dell’Interno, emesso con un’ordinanza dal sindaco ed eseguito dalla prefettura. Il set è stato allestito molti giorni prima tramite i comunicati del Viminale che annunciavano l’arrivo di circa 600 uomini, tra forze dell’ordine, vigili del fuoco e servizi sanitari, e l’attivazione di 18 pullman per trasferire in strutture di accoglienza i braccianti. Sul posto, previsti anche 4 mezzi del genio militare, oltre a operatori della protezione civile e della Caritas. Insomma, una vera “operazione” muscolare per mettere in scena uno sgombero che, più di ogni altra volta, è stato mediatizzato. Le foto mostrano in prima linea le ruspe, simbolo-giocattolo preferito dal Viminale, e poi a seguire la polizia in assetto antisommossa con gli scudi a protezione e ancora, a debita distanza, decine e decine di operatori, fotografi e giornalisti.
Stamane, il prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, ha tenuto a precisare “i numeri dell’operazione”: “Al 5 marzo scorso avevamo 1592 migranti. Di questi 200 sono stati trasferiti presso Cas e Siproimi (ex Sprar), 460 sono partiti spontaneamente, 932 sono nella nuova tendopoli dove ci sono ancora 20 posti disponibili”. Quelli che sono “partiti spontaneamente”, in realtà, si sono semplicemente dispersi nella campagna della Piana, nell’attesa di poter poi tornare, una volta calmate le acque. E così faranno anche quelli che sono stati trasferiti nei Cas lontani. Si riorganizzeranno nuovamente “a modo loro”, andando a ricreare nuovi luoghi dell’esclusione, quelli che vengono impropriamente definiti “ghetti”. E ricreeranno il bacino di manodopera a basso costo a cui i caporali potranno attingere.
In poche parole, si è trattato di un’operazione puramente mediatica e politica. Con buona pace dell’euforica esultanza del ministro dell’Interno che ha subito twittato: «Come promesso, dopo anni di chiacchiere degli altri, noi passiamo dalle parole ai fatti». Non si può esultare se il passaggio è dal “ghetto” alla “tendopoli”, un po’ più giù.
Di fatto, questa azione di forza non andrà ad arginare minimamente lo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne, e non offrirà soluzioni concrete per un’accoglienza dignitosa e civile di questi braccianti.
Come le associazioni denunciano da tempo, lo sgombero è soltanto una soluzione fittizia e di facciata. Medici per i diritti umani (Medu) e A Buon Diritto, ad esempio, in un comunicato stampa, hanno valutato in modo “estremamente negativo” la decisione di attuare un ennesimo e precipitoso sgombero della baraccopoli. Non è in discussione, come al solito, “la necessità di evacuare un insediamento le cui condizioni abitative ed igienico-sanitarie sono drammatiche, quanto l’estemporaneità di un’azione di sgombero attuata senza un’adeguata pianificazione in grado di tutelare la dignità e i diritti delle persone ospitate”, si legge sempre nel comunicato Il tutto “senza tenere in alcuna considerazione né i diritti individuali dei lavoratori migranti né gli impegni presi da istituzioni e associazioni regionali e locali nella direzione di un’azione graduale e di largo respiro volta all’inclusione sociale, abitativa e lavorativa dei migranti, in grado di favorire lo sviluppo dell’economia locale e di rivitalizzare un territorio sempre più spopolato e depresso”, concludono Medu e A Buon Diritto. Dello stesso parere anche Emergency, che ha sottolineato in una nota, “l’urgenza di individuare soluzioni abitative stabili per garantire condizioni di vita decorose ai lavoratori stagionali: i numerosi ruderi occupati, la baraccopoli e i campi tendopoli non possono infatti essere considerati in alcun modo luoghi dignitosi in cui vivere”.
La battaglia da combattere, allora, non può essere condotta a colpi di sgomberi e smistamenti di migranti qua e là, come se fossero pacchi postali, ma al contrario andrebbe assicurata attraverso l’annientamento del sistema di sfruttamento del lavoro.
Ma questo, lo diciamo da anni. E’ molto più semplice attaccare e fare piazza pulita dei braccianti, anello più debole della catena di sfruttamento, e non intaccare minimamente chi manovra invece tutta la filiera sporca del lavoro nero. Filiera che negli ultimi anni gronda anche di tanto sangue innocente versato e che ancora non trova giustizia.