Sono trascorsi già 14 giorni dal 19 ottobre, quando la notizia della morte di Desirée, morta per overdose a seguito di una violenza sessuale di gruppo, è balzata al centro delle cronache. Quattordici giorni in cui è successo di tutto e si sono susseguite dichiarazioni pubbliche e titoli da prima pagina dai contenuti che hanno avuto davvero poco a che vedere con questa ennesima violenza che ha colpito il corpo di una donna di sedici anni.
Sono passati 11 anni dal femminicidio di Giovanna Reggiani (noi ne abbiamo parlato nel nostro primo libro bianco sul razzismo in Italia, era il 30 novembre del 2007). Da quel momento in poi i casi di cronaca connessi alle violenze contro le donne, quando i colpevoli sono di cittadinanza straniera, hanno ricevuto un trattamento particolare, da parte sia della politica che della stampa.
E anche questo caso non ha fatto eccezione.
La morte di Desirée è stata raccontata utilizzando molte chiavi di lettura. Come al solito, la cronaca ha focalizzato l’attenzione solo su alcune, evocando antiche connessioni tra la sicurezza, la delinquenza, la presenza dei migranti e le occupazioni abusive.
Il quartiere di San Lorenzo ha una sua storia: le cronache del 1922 raccontano come fu l’unico quartiere ad opporsi agli squadristi fascisti e alla loro marcia su Roma. Ed in un certo senso in questi giorni è tornato orgogliosamente a farlo.
“Avete creato il vuoto e intervenite solo dopo le tragedie”, “No alla strumentalizzazione sul corpo di Desirée”, “Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”, recitano alcuni striscioni appesi all’ingresso di quello che dalla stampa mainstream è stato ribattezzato come un “luogo infernale”, “lo zoo di San Lorenzo”(“Desirée e i ragazzi dello zoo di San Lorenzo: l’umanità perduta che non ha pietà”, Il Messaggero, il 30 ottobre, “Desirée e i ragazzi dello zoo di San Lorenzo: l’umanità perduta che non ha pietà”, il Gazzettino, il 30 ottobre).
Quegli striscioni parlano chiaro. Sono la voce di un quartiere che non accetta di essere stigmatizzato e strumentalizzato. San Lorenzo, cosi come l’ormai tristemente nota via dei Lucani, sconta una condizione di totale abbandono di tanti immobili privati dei quali più nessuno se ne occupa. Questo, tuttavia, è stato artatamente trasformato in un capo di accusa ritorto contro il quartiere stesso: spazi “abbandonati” sono stati ribattezzati dalla stampa come spazi “occupati”. Ma la differenza non è di poco conto, come giustamente hanno ricordato gli attivisti di Communia, centro sociale che ha sede a due passi dallo stabile in cui è stata violentata Desirée, e le donne di Non una di meno che si riuniscono spesso proprio a San Lorenzo.
Gli spazi occupati sono spazi abitati che costruiscono socialità e fanno rivivere luoghi abbandonati all’incuria da soggetti pubblici o privati. A Communia ad esempio ci sono una sala studio, una sartoria gestita insieme a un gruppo di richiedenti asilo, un collettivo femminista e vengono organizzati incontri culturali e dibattiti. Communia risiede nei locali dell’ex Piaggio che quando sono stati occupati si trovavano in condizioni molto simili a quelli dell’edificio in cui, a pochi metri, è stata violentata Desirée.
Ecco perché è inaccettabile confondere strumentalmente gli spazi sociali occupati e i luoghi abbandonati, come ha fatto anche il ministro dell’Interno, il quale non ha perso la ghiotta occasione per invocare nuovamente le “ruspe” come “soluzione finale” o panacea di tutti i mali (“Salvini porta una rosa a Desirée: Io qui ci torno con la ruspa”, il Giornale, 24 ottobre) e per annunciare a breve un piano di sgomberi.
Dopo Salvini, anche i neofascisti di Forza Nuova hanno provato a speculare sulla morte di Desirèe, annunciando una ronda per le vie di San Lorenzo. Ma gli abitanti e le realtà sociali del quartiere si sono fatti trovare pronti. Perché San Lorenzo non è soltanto “movida” e “pusher”. E’ un quartiere che profuma di storia e di lotte operaie, di scorci pasoliniani e di cultura, malgrado tutto questo venga cancellato con la parola “degrado”.
Un corteo molto partecipato, costituito in grandissima maggioranza da giovani donne e uomini, ha attraversato le strade del quartiere venerdì 26 ottobre e un’altrettanto partecipata assemblea cittadina organizzata dall’Anpi il giorno dopo, ha chiarito la natura politica della strumentalizzazione che si è fatta sul corpo di Desiréee ricordando i valori dell’antifascismo.
Sul corpo di Desirée è stato riversato, per l’ennesima volta tutto, tutto il veleno. Di nuovo, una donna è stata stuprata e uccisa, e di nuovo, l’ennesima violenza è stata strumentalizzata perpetrando nuove violenze su di un corpo che ora non può più parlare. Anziché denunciare il traffico di droga, i poteri mafiosi, la speculazione edilizia, e il malgoverno della Capitale, si è voluto usare in termini propagandistici quanto è successo.
Tra le tante reazioni politiche e mediatiche alla morte di Desirée, una di quelle che ha fatto più discutere è quella pubblicata dal giornalista Gad Lerner sul suo profilo Twitter. Il suo invito a superare l’odio razzista e a riflettere meglio sull’accaduto (anche se, dobbiamo dire, pesa un po’ questo giudizio di predestinazione), ha attirato una miriade di insulti razzisti arrivati via social.
La verità non si vuole vedere. Desirée è stata uccisa dalla droga, dalla violenza e dall’abbandono. Ma anche da anni di indifferenza e di silenzi, e da politiche urbanistiche sbagliate e, soprattutto, dal sessismo e dal machismo che fanno ancora parte della cultura del nostro bel paese.
Gli uomini usano violenza nei confronti delle donne ogni giorno, con o senza droghe, con o senza alcool, nelle periferie e nelle case. La tendenza del dibattito pubblico attuale tende invece a “razzializzare” il reato, dimenticando (o omettendo volutamente) che il numero di donne violentate, picchiate, perseguitate e uccise in casa da mariti, compagni, familiari, è altissimo. Ma le violenze quotidiane non fanno notizia perché non vi è una “belva straniera” (“Stupri, degrado e clandestini: il ghetto bomba della belva”, Il Giornale, il 26 ottobre) da sbattere in prima pagina, perché il mostro in questo caso è quasi sempre un uomo bianco, italiano, spesso di classe media. E, si sa, il mostro italiano fa meno audience.
La parola “belva”, associata a quella di “branco”, è comparsa nei titoli e nelle pagine dei quotidiani (vedi i titoli de il Giornale o quelli di Libero) di questi ultimi giorni. Trattamento che non è stato riservato quando il responsabile di reati altrettanto atroci è stato un cittadino bianco e italiano. Ad esempio, nel caso del 18enne Manuel Careddu il 18enne di Macomer barbaramente ucciso da un gruppo di giovani suoi compaesani e coetanei a colpi di pala e di piccone la notte dello scorso 11 settembre sulle sponde del Lago Omodeo: nessuna parola e nessun mostro in prima pagina.
Dovremmo provare tutti e tutte a ritrovare quel senso di umanità che oramai da mesi andiamo anelando, per tornare ad essere uomini e donne. E per non dover abbassare le braccia e dirsi, per l’ennesima volta, che la sceneggiata è finita e che tra una settimana tutto tornerà come prima. E cadrà nell’oblio.