Questo 31 ottobre non è stato un giorno di festa per gli occupanti del Ninci Sestilio, ex deposito Atac adiacente alla metro San Paolo. La forza pubblica si è presentata alle 7 di mattina ai cancelli dell’occupazione che ospitava 20 nuclei familiari, stranieri, studenti e bambini. Dopo un tentativo di resistenza da parte di alcune persone salite sul tetto, la polizia ha portato tutti gli uomini in questura per procedere a identificazioni e denunce. “Sono in Italia da dieci anni – ci racconta una donna di origine sudamericana tenendo in braccio il figlio di pochi anni – e l’unico aiuto che ho avuto dal governo sono tre mesi di assistente sociale. Poi la strada. Siamo costretti a fare questo”. La sua storia assomiglia a quella di molti altri. Roma vive uno stato di permanente emergenza abitativa di cui fanno le spese in primis le fasce di popolazione con basso reddito. I fattori economici risultano infatti determinanti per il 33% dei casi (CIES Rapporto sull’esclusione sociale 2010) e sono ritenuti dagli intervistati la motivazione più importante della propria scelta abitativa. Per gli stranieri si aggiungono spesso alle difficoltà economiche altri fattori quali la mancanza di un titolo di soggiorno, che li pone sotto ricatto da parte dell’affittuario e non permette di richiedere un sostegno pubblico, e i comportamenti discriminatori, che colpiscono anche coloro che soggiornano regolarmente nel nostro paese. Secondo un’indagine Istat del 2009 la maggioranza delle famiglie composte da migranti vive in affitto o subaffitto (58,7% dei casi, contro il 16% delle famiglie italiane) e il 23% vive in abitazioni di proprietà (contro il 71,6% delle famiglie italiane). Tra coloro che vivono in case in affitto, il 60,1% degli stranieri non ha un regolare contratto rispetto al 39,39% degli italiani. Una situazione che l’amministrazione capitolina conosce molto bene: “Senza una risposta edilizia Roma esplode – dichiarava il sindaco Gianni Alemanno nell’autunno del 2010 al quotidiano Repubblica- mancano 30mila alloggi”. Non si vedono però soluzioni efficaci all’orizzonte dato lo scarso investimento di fondi nell’edilizia pubblica e la morsa repressiva nei confronti di chi si organizza autonomamente per rispondere al bisogno di avere un tetto sopra la testa. L’agonia dell’edilizia residenziale pubblica è di lunga data e non riguarda solo la capitale. Nel 1998, infatti, con la legge n.112 fu chiusa la sezione del fondo autonomo per l’edilizia residenziale presso la Cassa Depositi e Prestiti che gestiva i fondi ex Gescal per l’edilizia sovvenzionata e i contributi statali per quella agevolata. I fondi ex-Gescal garantivano un finanziamento annuale di circa 1,5 miliardi di euro. Con la chiusura del fondo iniziò il declino dell’edilizia pubblica. Se nel 1984 erano 34.000 i nuovi alloggi costruiti con denaro statale, nel 2004 il numero si era ridotto a 1.900 (dati Federcasa). Ma non è solo questione di cifre, l’emergenza abitativa è fatta di storie e racconti di esclusione sociale che troppo spesso passano sotto silenzio. Ne è un esempio la morte per annegamento di un giovane cingalese durante il nubifragio che ha colpito Roma lo scorso 20 ottobre. Saranga Perera, 32 anni, proveniva dallo Sri Lanka e viveva con la moglie e la figlia di tre mesi in un seminterrato in zona Infernetto. Le acque in piena del canale Palocco hanno sfondato uno dei muri dell’abitazione. «Siamo riusciti a portare fuori la moglie e la figlia, lui chiedeva aiuto attraverso una grata – racconta al Messaggero uno dei vicini – Gli abbiamo passato un tubo per l’acqua per cercare di farlo respirare, ma non ci siamo riusciti». La tragicità dell’evento fa passare in secondo piano il fatto che una famiglia sia costretta a vivere in un seminterrato pagando 600 euro al mese, secondo il proprietario, 1000 euro secondo gli inquilini, che sembra avessero subaffittato da un altro cittadino cingalese. Certo è che nessuno di loro godeva di un regolare contratto di locazione. E se la pioggia non ha risparmiato le case, ha colpito ancor di più le centinaia di alloggi di fortuna abitati da coloro che di fortuna ne hanno ben poca. Presso la stazione Ostiense vivevano dentro alcune tende circa cento persone di origine afgana, per la maggior parte rifugiati o richiedenti asilo. Dopo il nubifragio, che ha spazzato via parte della tendopoli, alcuni di loro si sono rifugiati in un vagone vuoto da cui sono stati sgomberati pochi giorni dopo. «Dodici persone, che avevano trovato riparo in un vagone abbandonato, sono state allontanate e ora vivono per strada.» – riferisce l’associazione Medici per i Diritti Umani (Medu) al Corriere della Sera. – «La situazione nella tendopoli di Ostiense rimane critica per il sovraffollamento e non solo. Dopo l’alluvione abbiamo rifornito i rifugiati di tende a tre posti. E poi abbiamo distribuito 120 coperte, fornite dalla Comunità di Sant’Egidio». Le tende sono una magra consolazione se si tiene conto che a Roma ci sono circa 245.000 vani inutilizzati comprendenti case ed edifici destinati a servizi, quali scuole, asl e negozi (dati riportati dal Corriere). Questi numeri pongono degli interrogativi sull’uso spesso strumentale del paradigma emergenziale, che nasconde dinamiche affaristiche e di sfruttamento che poco hanno a che fare con le reali condizioni abitative e urbanistiche della città.
Giulia Pacifici