In un palazzo vuoto di via Curtatone (che ospitava la sede di Federconsorzi, poi passata nel fondo immobiliare Fimit, ed infine posta sotto sequestro preventivo dal Tribunale di Roma), all’angolo con piazza Indipendenza, due passi dalla Stazione Termini di Roma, da quattro anni, centinaia di rifugiati e richiedenti asilo, per la maggior parte cittadini etiopi ed eritrei, tra cui moltissimi minori, avevano trovato una casa negli uffici ormai abbandonati. L’occupazione, sostenuta dai movimenti per il diritto all’abitare, è stata sgomberata nella mattinata del 19 agosto da una squadra di agenti in tenuta antisommossa.
Uomini, donne e bambini sono stati costretti ad abbandonare con la forza la struttura, ammassando valigie e oggetti di ogni genere in strada, mentre i pullman della polizia e i mezzi di linea dell’Atac, messi a disposizione dal Comune, hanno operato dei trasferimenti di alcuni occupanti negli uffici immigrazione della questura.
Un nuovo sgombero che segue quello della scorsa settimana a Cinecittà, dove gli occupanti (ora accampati di fronte alla chiesa di Santi Apostoli di fronte alla Prefettura) hanno resistito diverse ore asserragliati sul tetto. E che segue altri numerosi sgomberi operati dall’amministrazione capitolina (vedi i ripetuti sgomberi del presidio di Baobab alla stazione Tiburtina o dello stabile di via Vannina sulla Tiburtina).
Non sono mancati momenti di tensione quando i migranti hanno bloccato la circolazione chiedendo di non essere abbandonati in mezzo alla strada, mentre diversi attivisti delle associazioni antirazziste e dei movimenti per la casa, lamentavano la totale latitanza delle istituzioni. Gli sfollati hanno vissuto ore drammatiche, non solo per l’incertezza delle loro destinazioni, ma anche perché senza cibo e acqua.
Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha espresso “profonda preoccupazione per lo sgombero senza preavviso di circa 800 rifugiati dal palazzo di Via Indipendenza”, e soprattutto per “l’assenza di soluzioni alternative per la maggioranza delle persone sgomberate. Infatti nonostante ad alcune persone vulnerabili sia stato concesso di rimanere nel palazzo, circa 200 persone, tra cui circa 50 donne, sono state costrette a dormire in strada vicino a Via Indipendenza”.
Da sabato, dunque, oltre 150 persone, dopo lo sgombero, sono rimaste accampate nei giardinetti di Piazza Indipendenza, in una piazza blindata da militari e agenti che non hanno consentito neanche l’ingresso nello stabile sgomberato per raccogliere gli effetti personali rimasti negli alloggi dopo il blitz.
Dopo il completamento del censimento delle 107 persone “in condizione di fragilità” presenti tra quelle rimaste nei pressi dell’edificio (gli aventi diritto presso il circuito di accoglienza, i cosiddetti extra Sprar) predisposto dai Servizi Sociali capitolini, sono solo 20 le persone che hanno accettato l’offerta proposta dall’amministrazione, a fronte di numerosi rifiuti. E dopo la quarta notte passata sotto le stelle, questa mattina le forze dell’ordine hanno annunciato alle persone ancora presenti che avrebbero dovuto lasciare definitivamente la piazza (qui alcune immagini della situazione di questa mattina attraverso una diretta Facebook).
Il Comune, dal canto suo, ha dichiarato, in una nota, che molte delle soluzioni abitative proposte non sono state ritenute “accettabili” dalle persone perché, come spiegato nei giorni scorsi dai volontari, prevedono lo smembramento delle famiglie e dei nuclei parentali, non avendo la Capitale posti sufficienti nè strutture idonee ad accogliere le famiglie. Il che risulta prima di tutto assolutamente comprensibile, ma anche assurdo.
Sempre nella mattinata, presso la Prefettura, si è tenuta una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica volta ad esaminare – con tutti gli attori istituzionali coinvolti – soluzioni da mettere in campo per far fronte alla collocazione delle “fragilità” (famiglie con minori, disabili e anziani non autosufficienti, senza considerare che ci sono numerosi rifugiati fra di loro, ndr). La stessa Prefettura, in una nota, fa sapere che, durante l’incontro, “a cui, oltre al Questore e ai rappresentanti delle altre Forze di polizia, hanno partecipato l’Assessore al patrimonio e alle politiche abitative di Roma Capitale, il Segretario generale della Regione Lazio ed i rappresentati dell’Assessorato comunale alla persona, scuola e comunità solidale, il Prefetto ha sollecitato tutti i presenti ad individuare una pronta risposta finalizzata a superare le criticità ancora esistenti in piazza Indipendenza. Dopo un lungo e approfondito confronto, favorito dalla mediazione del Prefetto, è stato condivisa una soluzione che vedrà la IDEA FIMIT S.G.R., Società che ha in gestione l’immobile di via Curtatone, mettere da subito a disposizione, senza oneri per l’amministrazione comunale e per un periodo di tempo di 6 mesi, alcune proprie unità abitative per la immediata collocazione alloggiativa degli aventi titolo, secondo modalità operative da definire in un Tavolo tecnico già convocato presso l’assessorato al patrimonio”. La soluzione messa in campo “consentirà di procedere a liberare definitivamente ed in condizioni di sicurezza l’immobile sito in via Curtatone, sarà oggetto di attento monitoraggio da parte della Prefettura che, in prossimità della scadenza del termine dei sei mesi provvederà a convocare un nuovo Tavolo, per verificare le soluzioni nel frattempo messe in campo dagli Enti istituzionali coinvolti per una gestione strutturata della problematica”, conclude la nota.
La presenza di attivisti e rappresentanti delle associazioni ha probabilmente (almeno per ora) evitato che si procedesse allo sgombero forzato di Piazza Indipendenza, ma i problemi restano.
L’ennesima soluzione di “emergenza” non risolve infatti i problemi relativi all’accoglienza e alla sistemazione dei numerosi migranti e transitanti che popolano la Capitale. E, quando i problemi di “degrado” dell’ambiente cittadino e di “sicurezza” urbana passano in primo piano, calpestando la priorità della tutela dei diritti umani, si rischia di peggiorare ulteriormente la situazione di persone che sono già molto vulnerabili.