Avete sentito parlare dei 35 euro che lo Stato spende per mantenere i richiedenti asilo durante il lungo percorso che porta al riconoscimento dello status di rifugiato o al suo diniego? Certamente, quei soldi sono un’ossessione di chi ritiene che ciascuna persona che sbarca sulle coste italiane in cerca di protezione sia un truffatore e che andrebbero tutti rispediti a casa. Bene, secondo quanto sappiamo – e per una serie di ragioni che non è solo il prodotto delle politiche restrittive messe in atto dall’Italia negli ultimi mesi – il numero degli sbarchi nell’ultimo anno è considerevolmente diminuito (circa 20mila sbarchi contro più di 110mila lo scorso anno). A dire il vero la diminuzione è costante a partire dal 2016. Il calo degli arrivi in Italia via mare implica un risparmio considerevole di risorse pubbliche. Un rapporto pubblicato oggi da ISPI e Cesvi (Migranti, la sfida dell’integrazione) stima che i soldi risparmiati saranno quasi due miliardi di euro. Lo stesso studio suggerisce cosa si potrebbe fare con i soldi risparmiati: “investire in integrazione”.
E perché dovremmo? Perché queste persone dovrebbero poter vivere e partecipare alla vita del nostro Paese in maniera normale. Già, ma c’è molto di più. Investire in inclusione sociale ed economica significa risparmiare risorse in futuro e, potenzialmente, far crescere il Pil. “Più integrazione”, scrivono i ricercatori, significa risparmiare su costi futuri di welfare e sussidi per queste persone, partecipazione al sistema di formazione, meno persone potenzialmente sfruttabili dalla criminalità organizzata, più imprese future, maggiori entrate fiscali.
Ma cosa significa migliorare la qualità delle politiche di inclusione? È una domanda che in forma meno puntuale ci siamo posti anche noi con un Focus pubblicato in questi giorni nel quale passiamo in rassegna una serie di buone pratiche relative al lavoro con e per i migranti (che si tratti di avvio al lavoro, lotta alla discriminazione o campagne per i diritti). Il lavoro di Ispi e Cesvi è più puntuale e avanza delle proposte a partire da una fotografia dell’esistente in materia. Servirebbe un’offerta più omogenea, sistemi di valutazione del lavoro svolto puntuali ed efficaci, individuare best practices e riprodurle, investire di più in istruzione, apprendimento della lingua e formazione professionale. E anche un sistema della distribuzione territoriale pensato, che, creando un sistema dell’accoglienza integrato nel territorio, che non ghettizzi e renda marginali i luoghi e le persone che lo abitano per un periodo di tempo, non venga vissuto come un aspetto dell’emergenza.
Troveranno ascolto le idee di Ispi e Cesvi? Al momento è improbabile: chi ci governa, preferisce alimentare le emergenze anziché lavorare con lo sguardo rivolto al medio periodo.