Le politiche migratorie e sull’immigrazione risentono di un approccio sicuritario che ostacola l’ingresso, l’accoglienza, il soggiorno e l’inclusione sociale dei migranti nel nostro paese. In particolare i nuovi arrivi di profughi provenienti dall’Egitto e dalla Siria stanno mettendo di nuovo in evidenza l’inadeguatezza del sistema di accoglienza.
Molte associazioni cercano di far fronte a questa carenza erogando servizi (corsi di italiano, poliambulatori, sportelli legali..). Si tratta di servizi utilissimi, soprattutto in questo periodo di smantellamento costante e continuo del welfare state, acceleratosi nel corso della crisi economica.
Ma sono poi così scarse le risorse che ci sono? Ed è sufficiente limitarsi all’erogazione di servizi? O non sarebbe utile rilanciare una più decisa attività di denuncia e di pressione sulle istituzioni affinché gli annunci siano seguiti da interventi concreti per cambiare rotta?
Se ne è discusso al workshop organizzato da Lunaria, Arci e Antigone durante il Forum della campagna Sbilanciamoci! tenutosi a Roma dal 6 all’8 settembre.
Sul primo punto, si deve sottolineare che le risorse ci sono, solo che vengono utilizzate in modo sbagliato. Basta sfogliare il dossier recentemente pubblicato da Lunaria, Costi disumani: tra il 2005 e il 2012 sono almeno 1 miliardo e 668 milioni di euro le risorse nazionali e comunitarie stanziate per il “contrasto all’immigrazione irregolare”. Si attesta invece intorno ai 55 milioni di euro l’anno il costo minimo stimato a regime per il mantenimento dei Cie. Spese di cui è difficilissimo avere un’idea, vista la scarsa trasparenza politica a riguardo. E soldi pubblici che, oltre a essere usati senza una corretta informazione ai cittadini, vengono anche spesi male, perché non raggiungono nemmeno l’obiettivo previsto dal legislatore, ossia fermare l’immigrazione “irregolare”. Tanto che poi la politica corre ai ripari riconoscendo la presenza di queste persone con sanatorie, regolarizzazioni etc.
Mentre, come afferma Lunaria anche alla luce del suo studio, il modo migliore per “contrastare l’immigrazione irregolare” è quello di facilitare l’ingresso e il soggiorno regolare dei migranti e dei richiedenti asilo nel nostro paese, usando queste risorse per migliorare il livello di accoglienza.
Per quanto riguarda il secondo aspetto: le azioni intraprese dalle associazioni sono utilissime, vista la situazione. Però, le risposte istituzionali stentano ad arrivare ed è mancata, almeno a partire dall’insediamento del Governo “tecnico” in poi una pressione politica forte e coordinata finalizzata a sollecitare politiche di cambiamento. E’ urgente da una parte “fare rete”, e dall’altra “contestualizzare il tema dei diritti dei migranti all’interno delle questioni generali come lavoro, politiche sociali, economia”. Lo ha affermato la presidente di Lunaria e portavoce di Sbilanciamoci Grazia Naletto, sollevando una questione condivisa da tutti i presenti al workshop: “Spesso, le organizzazioni che si propongono di individuare proposte alternative a quelle esistenti circa l’immigrazione, tendono a trattarle in modo separato rispetto al complesso delle politiche sul welfare, sul lavoro, sull’abitare”. Questa distinzione incide negativamente sulla lotta per la tutela dei diritti umani perché porta a una frammentazione delle rivendicazioni.
Detto in altri termini: parlare dei diritti dei migranti svincolandoli dai diritti dell’intera società non fa altro che confinare ancora una volta i migranti stessi in un’area separata, cosa che, nella peggiore delle ipotesi, può fare anche da sfondo a discorsi basati sul “noi contro loro”.
Per evitare di auto-frammentarsi, l’antidoto è uno solo: unirsi in un’azione comune per una reale tutela della dignità umana e dei diritti. Come ha esemplificato magistralmente Claudio Graziano, rappresentante Arci, non si tratta di “parlare esclusivamente del problema dell’accoglienza, ma di sollevare la questione generale della casa, all’interno della quale si può parlare anche della specifica situazione dei migranti”. Si tratta, insomma, di creare un rapporto reale tra “politiche dell’immigrazione e politiche del welfare”, non considerando le prime come una realtà sganciata dalle seconde.
Un percorso che, vista la situazione politica a dir poco confusa, può sembrare difficile da compiere, ancor più in questo momento in cui la “crisi” viene usata come pretesto per i continui tagli alle politiche sociali.
Ma invece forse è proprio questo il momento per chiedere all’unisono un’inversione di rotta: è l’idea portata avanti da Stefano Galieni. “Ormai la presenza migrante in Italia ha saldo negativo, moltissime persone si spostano o chiedono di farlo e l’Italia sembra stia tornando ad essere un paese di emigrazione”. Alla luce di questa inversione di rotta, si deve ora “affermare che tutte le cose fatte dagli anni ’80 in questa materia sono risultate fallimentari, pretendendo un’assunzione di responsabilità della politica e un cambiamento reale”.
E’ d’accordo Pabrizio Gonnella di Antigone, secondo cui “l’agenda comune delle associazioni deve diventare un’agenda politica”: obiettivo difficile ma non impossibile in un momento in cui “la situazione politica è implosa e priva di coerenze: non è difficile ora – afferma Gonnella – fare pressione, sollevando argomenti specifici, come la questione dei Cie, o la mancata efficienza delle politiche di ingresso e accoglienza, per imporre nel dibattito parlamentare un discorso invece non più settoriale, bensì generale, sulla questione dell’immigrazione”.
Alla luce di questo, e anche della situazione socio-economica attuale, Galieni afferma che “si deve fare un lavoro che fin’ora non si è stati capaci di fare: costruire spazio pubblico in cui discutere di questo tema, creare una riflessione più articolata su questo con la società civile”.
Una necessità di dialogo e informazione condivisa da tutti, vista anche l’immagine stereotipata e parziale diffusa dai media main stream, che parlano degli immigrati quasi esclusivamente in chiave securitaria, o in relazione ai fatti di cronaca, senza inserire mai la materia, anche qui, in un discorso più ampio di coesione sociale e tutela dei diritti.
L’urgenza di una maggiore coesione riguarda, come anticipato, anche le attività – di servizio come di denuncia e pressione – portate avanti da associazioni e fondazioni. Tutti i partecipanti al workshop hanno condiviso l’esigenza di un coordinamento effettivo tra le realtà presenti, per non sprecare energie e risorse e avere più forza, perché, come esemplificato da Naletto in riferimento all’aspetto giurisdizionale, “un ricorso presentato da sei associazioni è più forte di quello presentato da una sola”.
Per scardinare questa frammentarietà di servizi e attività, la parola chiave individuata da Alessia Montuori di Senza Confine è “Europa”, anche alla luce del fatto che attualmente norme, regole e standard giungono dalle istituzioni sovranazionali. Vista dunque l’importanza del livello transnazionale, anche il mondo dell’associazionismo dovrebbe organizzarsi in tal senso, per un lavoro di pressione più omogeneo e quindi più efficace.
Proprio come fatto dalla campagna Lasciatecientrare per l’accesso, e successivamente la chiusura, dei Cie: una campagna, spiega la portavoce Gabriella Guido, diffusa a livello europeo, che si propone di informare i cittadini sulle risorse a livello europeo per un sistema di privazione della dignità umana, lanciando anche proposte provocatorie per riconvertire queste strutture ad uso sociale e renderle, ad esempio, centri di formazione e inserimento lavorativo.
Il coordinamento di cui si sente la necessità potrebbe essere utile anche per porre un freno a una situazione che Graziano ha definito “perversa e corrotta”, tra gli attori del sociale e la politica. Due termini forti, ma naturalmente non usati a caso. Alla base di questa situazione c’è prima di tutto un problema di autonomia: “c’è molta differenza tra chi fa advocacy e chi, invece, si occupa di alcuni servizi dedicati ai migranti: in questo secondo settore spesso manca autonomia, perché generalmente i soldi arrivano dalla politica, attraverso il sistema dei bandi”. Gli fa eco Cristina Cecchini, avvocato di Asgi: “Il problema del terzo settore è l’indipendenza, l’unica base possibile per garantire l’onestà intellettuale necessaria per avanzare proposte e smantellare le ipocrisie su cui si basa il sistema degli ingressi”.
Parlando dell’aspetto “corrotto”, il rappresentante dell’Arci si riferisce al fatto che su questo settore, sulla sua frammentarietà, e anche, purtroppo, sulla sua cattiva gestione, si è basato, troppo spesso, un arricchimento. Graziano ha spiegato la questione con un utile esempio relativo al sistema di seconda accoglienza: un settore “economico e lavorativo che dovrebbe essere destinato ad esinguersi”. Come? Graziano spiega che, ad esempio, “si dovrebbero monitorare i bandi per gli alloggi di edilizia popolare, controllando che vengano previsti anche posti per i cittadini migranti, così da permettere di smantellare gradualmente il sistema della seconda accoglienza”.
Un sistema carente sotto tutti i punti di vista: Graziano lo definisce un “sistema fermo, in cui la persona entra ed esce nello stesso modo in cui è entrata, rimanendo legata a un impianto profondamente assistenziale”, lontanissimo dal concetto di empowerment. Inoltre, i posti sono pochi – e non è prevedendo centri più grandi, come sembra avverrà con l’apertura di centri Sprar con capienza fino a 60 posti, che la situazione può essere migliorata, perché in questo modo si stravolge il principio di accoglienza in autonomia in piccoli centri.
Questo contribuisce a quello che AnnaMaria Rivera chiama efficacemente un “processo di clochardizzazione dei migranti, in particolare dei richiedenti asilo e rifugiati”. Alla faccia della vulgata che “crede che a queste persone venga dato tutto”. Banalmente, basta passare per la stazione Termini, se si è a Roma, per rendersi conto che la maggior parte delle persone che dormono nello spiazzo antistante la stazione sono richiedenti asilo, giovani donne e uomini che avrebbero forse diritto a una protezione internazionale, e che magari hanno anche il documento che li identifica già come rifugiati. Solo nella capitale le situazioni “esemplificative” di questo processo sono purtroppo tantissime. E’ il caso dell’ambasciata somala, ridotta a un edificio abbandonato e fatiscente a lungo occupato da cittadini somali titolari di protezione umanitaria, ma abbandonati a loro stessi e lasciati ai margini della società, costretti a (soprav)vivere in condizioni più che degradate. Oppure de “la buca”, lo spazio a Ostiense in cui hanno trovato rifugio per anni molti rifugiati afghani. Medu si è occupata da vicino della questione, con il progetto “Un camper per i diritti”: un percorso che, come spiega Alberto Barbieri, “è nato come assistenza per i senza fissa dimora, e poi ha finito per occuparsi prevalentemente di immigrati, la parte maggioritaria delle persone, appunto, senza casa”. Secondo i dati trasmessi da Berberi durante il workshop, “il 40% dei pazienti di Medu a Roma sono rifugiati senza fissa dimora”, cosa che evidenzia “la totale mancanza di un efficace sistema di accoglienza”.
Quali dunque le mosse da fare?
Si deve chiedere alla politica di assumersi le proprie responsabilità, inserendo nell’agenda il tema dell’immigrazione, facendo leva su aspetti specifici:
– garantire l’accesso alle procedure di riconoscimento del diritto di asilo, su cui, tra l’altro, ad oggi l’Italia non ha ancora una legge organica;
– migliorare il sistema d’accoglienza, anche alla luce della situazione siriana, chiedendo al governo di affrontare i nuovi arrivi garantendo forme di protezione internazionale senza replicare un modello fallimentare (come quello adottato nel corso della cosiddetta emergenza Nord-Africa);
– modificare il sistema di ingresso, per porre fine al dramma continuo e inaccettabile delle morti in mare;
– eliminare il sistema di detenzione amministrativa basato sui Cie, un sistema che attualmente opera al 50%, da cui ci sono continue fughe legittimate per tenere a bada la conflittualità: un sistema di fatto con valenza solo simbolica, da eliminare.
In relazione a questo ultimo punto, è emersa la proposta di lanciare in tempi rapidissimi una campagna stampa che chieda l’immediata chiusura dei Cie ancora in funzione. Ad oggi i Cie funzionanti sono 7 e funzionano al 50% della loro capienza. L’implosione del sistema di detenzione amministrativa è sotto gli occhi di tutti gli attori che a vario titolo ne possono valutare il funzionamento e molti (dai funzionari delle prefetture, ai sindacati di polizia, se proprio non vogliamo parlare delle organizzazioni antirazziste di tutela dei diritti umani) pensano che debbano essere chiusi. Una campagna stampa che a breve denunciasse che ben 4 centri sono stati chiusi negli ultimi mesi, ricordasse le continue fughe (“tollerate” dalle forze dell’ordine) che avvengono dai centri; gli incidenti e le morti (come a Isola Capo Rizzuto) che vi sono avvenute, gli sprechi di risorse pubbliche investite per la loro manutenzione e per le continue ristrutturazioni, sarebbe utile per spingere il Governo a prendere in considerazione una volta per tutti la necessità di chiuderli.