Intervista a Gianfranco Schiavone dell’Asgi
di Cinzia Gubbini
Il diritto d’asilo è uno dei fattori che identifica un paese a alto tasso di democrazia e civiltà, codificato com’è dalle convenzioni internazionali che dopo le grandi guerre hanno cercato di identificare un mondo dove non potessero più essere tollerati persecuzioni e maltrattamenti. Di antichissima origine e presente in molte civiltà, nel XXI secolo non smette di essere attuale. Per l’Unione europea è un argomento di eterno scontro e difficilissimo equilibrio, ma anche una delle tante sfide di integrazione che, però, sembra ancora lontana dall’essere raggiunta. Proprio l’inizio dell’estate ha visto qualche “rodaggio” delle direttive europee, che lasciano ancora a desiderare. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Schiavone, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e autore dello studio “Il Diritto alla Protezione”, una fotografia molto accurata e complessa sulla situazione del diritto d’asilo in Italia.
Diritto d’asilo in Italia, a che punto siamo?
Siamo in quella fase che si è aperta nel 2008 con il recepimento delle direttive europee che convenzionalmente vengono chiamate sulle procedure e sulle qualifiche.
Che a giugno di quest’anno sono state modificate in sede europea…
Sì, il 12 giugno è stata una data importante perché dopo due anni di acceso dibattito e lunghissime trattative è stata approvata una nuova direttiva sulle procedure – che l’Italia avrà due anni di tempo per recepire – e l’attesissimo Regolamento di Dublino 3. Nel 2011, invece, era già stata modificata la direttiva sulle qualifiche. Per l’Italia, quindi, ci sono una serie di appuntamenti per mettere a sistema il diritto d’asilo: entro il 24 dicembre di quest’anno deve infatti recepire la direttiva sulle qualifiche. Mentre il nuovo Regolamento di Dublino entra in vigore in tutti gli stati europei dal 1 gennaio 2014.
Si tratta di maquillage o di cambiamenti sostanziali?
Dipende dai punti di vista, ma certamente non siamo di fronte a cambiamenti profondi, che invece sarebbero necessari e auspicabili. Siamo di fonte a dei testi che sotto alcuni aspetti possono dirsi migliorativi, ma se non vogliamo parlare di maquillage parlerei senza dubbio di una certa inadeguatezza di fronte agli eventi. Ancora una volta l’Europa dimostra di non essere all’altezza e di essere lontanissima dall’obiettivo di avere un sistema unico dell’asilo. I testi approvati, in buona sostanza, lasciano ancora degli ampi spazi di manovra e di discrezionalità ai singoli Stati.
Qual è il ruolo dell’Italia in questo contesto?
Staremo a vedere. La legge 6 agosto 2013 pubblicata in Gazzetta ufficiale il 20 agosto è una legge delega che prevede, tra le altre cose, il recepimento della nuova direttiva sulle qualifiche. Si tratta di una legge delega, quindi un po’ vaga, ma sugli aspetti dell’asilo non sembra malvagia. Soprattutto, la cosa più interessante, è che impegna il governo a prevedere un programma nazionale di integrazione per i titolari di protezione, e rinvia per competenza al ministero dell’Integrazione, attualmente guidato da Cécile Kyenge. Si tratta di un piccolo passo che, però, se venisse effettivamente realizzato sarebbe gigantesco, perché andrebbe a correggere quello che, a mio avviso, è il più grave e sostanziale problema sull’applicazione del diritto d’asilo in Italia: l’integrazione delle persone che ricevono protezione. Paradossalmente, per come è organizzata l’Italia, chi riceve l’asilo o una protezione sussidiaria – che sono titoli di soggiorno tra i più tutelati, ovviamente – diventa figlio di un dio minore. Non credo di esagerare se dico che in Italia i rifugiati finiscono per avere stretti punti di contatto con i senza fissa dimora. Mettiamo il caso che tu sia un profugo: fai richiesta di asilo, vieni rinchiuso in un Cara – strutture spesso gravemente carenti, ma almeno hai un tetto sopra la testa e qualcosa da mangiare. Dopo il colloquio con la commissione riconoscono che sei un perseguitato, e che l’Italia debba offrirti protezione. Ti consegnano il permesso di soggiorno e aprono le porte del Cara. Se chiedi: e ora dove vado? La risposta è: dove vuoi, ma non qui. Sei libero, insomma, di dormire per strada. Queste persone che non sanno la lingua, non hanno un lavoro, non hanno una residenza, non hanno soldi, provengono da situazioni di forte disagio, sono protette solo dall’espulsione. Si tratta di una questione drammatica e urgente. Nello studio “Il diritto alla protezione” abbiamo stimato – e siamo sicuri che se la cifra è sbagliata lo è per difetto – che non meno del 65% dei titolari di protezione non ha avuto accesso a nessun programma di integrazione. Quindi sostanzialmente l’Italia produce dei senza fissa dimora. Questo ha generato il fenomeno degli ammassamenti nelle periferie delle aree urbane e lo sfruttamento lavorativo nelle campagne.
E per quanto riguarda le procedure, a che punto è l’Italia?
L’Italia ha già dei problemi molto rilevanti nel rispetto delle procedure vigenti. In questi anni sono stati sollevati tantissimi rilievi critici, bisogna capire se l’attuale testo verrà superato, ma anche come verrà superato: cioè se ci saranno miglioramenti, oppure no. Non è scontato. Il principale problema italiano è quello del sistema di accoglienza, che è innanzitutto inadeguato numericamente. Ma c’è anche un problema di qualità: il sistema dei Cara, ad esempio, ha ormai ampiamente dimostrato di essere un totale fallimento. Enormemente dispendioso e carente. Poi c’è il problema del modo di operare delle 10 Commissioni nazionali: la competenza, e in generale la capacità di esaminare le domande in maniera equa e competente. Anche su questo ci sono ricerche recenti, una recentissima è stata realizzata dall’Associazione senza Confine che ha esaminato l’operato della Commissione territoriale di Roma proprio sotto il profilo della qualità.
Quali modifiche andrebbero messe in campo?
Una riforma della procedura è necessaria. Ci sono almeno tre punti da rivedere: il primo è che la legge non individua i profili di competenza che devono avere i componenti delle commissioni, per cui è possibile purtroppo che le amministrazioni nominino persone che non hanno adeguate competenze, visto che la norma non stabilisce verifiche né per titoli né per esami. Il secondo è che la norma attuale prevede che, ad eccezione del componente nominato dall’Acnur, gli altri siano in realtà tutti afferenti la pubblica amministrazione, in particolar modo da un lato la carriera prefettizia e dall’altro la carriera di polizia. Mancano, come si vede, figure non legate alla pubblica amministrazione e al potere esecutivo. E’ grande quindi il rischio che ci sia una fattiva influenza sulle decisioni della politica. Ma non solo: vista la delicatezza della questione, sarebbe auspicabile che la Commissione si avvalesse di figure professionali: psicologi, sociologi, antropologi, medici. Persone che siano in grado di decifrare i codici culturali, o anche di individuare eventuali conseguenze dei maltrattamenti. Oggi ci affidiamo alla speranza che capiti un bravo Commissario. Ma la legge non tutela. La nuova direttiva impone che l’intervista sia condotta in maniera equa da personale competente e che tenga conto degli aspetti di carattere sociali e culturali, ma le modalità concrete sono lasciate alla discrezionalità degli Stati. Il terzo: le Commissioni non hanno fondi, e questo non è possibile. Per poter prendere una decisione su una determinata persona è necessario poter consultare banche dati, fare ricerche, chiamare testimoni. Per le commissioni non è previsto nulla. Neanche uno staff di ricercatori. E farà sorridere, ma non sono rari i casi di Commissari che non parlano neanche una parola di inglese.
C’è poi l’annoso problema dei ricorsi…
Senza dubbio: un impianto da cambiare. L’attuale sistema funziona malissimo. Non è possibile che i ricorsi debbano essere presentati nel luogo che ospita la Commissione esaminante e non in quello di residenza dello straniero. Questo comporta che quelle dieci Corti di Appello competenti abbiano la sensazione di essere invase dalle domande di asilo. E in effetti è così: ma i ricorsi non è vero che sono così tanti, il problema è che è tutto concentrato in sole dieci Corti. Con tutti i problemi, anche rispetto alle decisioni prese, diciamo così, in modo molto veloce. Il che, peraltro, crea anche un problema di giurisprudenza: sono solo quelle dieci Corti a esprimersi. I magistrati di altre città possono svolgere un’intera carriera senza avere mai avuto a che fare con il diritto di asilo. Un’assurdità.
E sulla questione delle qualifiche?
I cambiamenti della nuova direttiva europea sono molto modesti. Da questo punto di vista forse è il caso di augurarsi che l’Italia non tocchi nulla dell’attuale testo, visto che nel 2008 la direttiva fu recepita in modo molto aperto. Il cambiamento più importante, che certamente va accolto, è quello dell’estensione dell’accesso al pubblico impiego non solo per i rifugiati ma anche per i titolari di protezione. Insomma, con il nuovo recepimento la parola d’ordine è: non arretrare e non assumere decisioni più restrittive.
L’estate è stata scossa dal caso dell’espulsione di di Alma Shalabayeva e di sua figlia verso un paese in cui esistono seri e circostanziati timori di persecuzione. E’ accaduto solo per colpa della politica, o ci sono anche dei meccanismi che non funzionano nella legge sull’asilo?
Aldilà del ruolo della politica, il caso di Shalabayeva ha messo in evidenza quanto sia inefficace il controllo giurisdizionale delle persone trattenute, in questo caso delle persone trattenute nei Centri di espulsione, i Cie. La seconda questione è invece una questione di accesso alla procedure. L’accesso alla procedura in Italia è molto aperta: non prevede né vincoli né tempi. Sembra che tutto funzioni. Ma non è così perché mancano totalmente servizi effettivi e efficaci sui luoghi di frontiera e nei Cie che effettivamente permettano alle persone di poter presentare domanda. Purtroppo il caso Shalabayeva ci ha fatto vedere come né il giudice di pace né tanto meno la polizia siano stati in grado di attuare la norma.
La politica ultimamente si sta occupando della Siria, ma solo perché siamo forse alla vigilia di un attacco armato. Nulla si dice, invece, dei profughi che numerosi stanno arrivando anche in Italia, mentre da anni affollano ormai i paesi confinanti. Persone che per l’Europa sembrano non esistere.
Per dirla in una maniera molto brutale, ma vera, noi agiamo solo nel momento in cui le persone arrivano qui a loro rischio e pericolo prendendo una carretta del mare. Se non arrivano, non viene fatto assolutamente nulla in altre direzioni. Ricordo che non esistono programmi che in qualche modo permettano un sostegno o un aiuto alla fuga. In Italia, uno dei paesi europei più prossimi ai confini siriani, non è stato predisposto neanche un canale che faciliti i ricongiungimenti familiari. Prima di questa intervista sono stato contattato da un signore siriano che vive in Italia: vuole far arrivare in Italia, per salvarlo, suo cugino. Mi ha chiesto cosa possa fare. Ma purtroppo non può fare niente, se non mandare suo cugino all’ambasciata italiana a chiedere un visto turistico, sperando che i funzionari dell’ambasciata facciano finta di crederci. Chi vuole protezione deve affidarsi ai trafficanti. Non ci son programmi di resettlement, l’Europa in sostanza non fa niente.
Un’ultima domanda sul Regolamento di Dublino 3, ci sono novità positive?
L’attesa era grande, ma il risultato modesto. Le novità sono sostanzialmente tre. Uno: la prima è che i criteri della riunificazione familiare vengono un po’ allentati, non solo la presenza di genitori o coniugi ma anche la presenza di parenti stretti è sufficiente a determinare la competenza del paese per l’esame della domanda. Il problema è che la norma lascia ancora alla completa discrezionalità degli Stati se accogliere o meno la competenza. Secondo: si prevede che nel caso di ricorso contro il regolamento di Dublino tale ricorso abbia effetto sospensivo, e questa è una novità anche per l’Italia. Terzo: la famosa modifica conseguente alla situazione greca. La ricordo brevemente: i trasferimenti verso la Grecia sono stati bloccati in seguito a una sentenza della Corte di Giustizia, che ha semplicemente detto che il Regolamento di Dublino deve essere applicato in armonia alle altre legislazioni sull’asilo. E che quindi se la situazione in Grecia attualmente non tutela il supremo interesse del richiedente asilo, questi non può essere costretto a tornare in Grecia quale primo paese di approdo per vedere esaminata la sua domanda. Il nuovo regolamento ha trasformato questo orientamento in norma, ed è previsto che in caso di sistematiche inadempienze del paese di primo approdo i criteri di competenza di Dublino non si applicano. Faccio presente che in questo momento è avviata una procedura di infrazione della Commissione europea nei confronti dell’Italia per le violazioni anche gravi della normativa sull’asilo. Il problema generale, però, è che anche questa nuova versione del regolamento conferma l’approccio precedente, nonostante tutte le organizzazioni europee lo considerino profondamente sbagliato e fallimentare.