Proprio oggi Amnesty International denuncia che la metà dei rifugiati del mondo sono ospitati solo in 10 Paesi, e accusa gli stati più “agiati” di essere all’origine di questa situazione problematica. Attualmente, i rifugiati sono costretti a vivere in Paesi confinanti o vicini a situazioni di crisi. Tra gli Stati ricchi, è menzionato solo il Canada, citato come Paese virtuoso, che ha potuto ricollocare quasi 30.000 rifugiati siriani dal novembre 2015: cifra però insignificante se paragonata ai numeri che deve sostenere la Giordania. “Se ognuno dei Paesi più ricchi del mondo prendessero i profughi in proporzione alle loro dimensioni, la loro ricchezza e il tasso di disoccupazione, trovare una casa per i rifugiati sarebbe una sfida risolvibile“, conclude Amnesty International.
Ma questo discorso è proprio quello che, ad esempio, un capo di governo come Orban non vuol proprio sentire. Sin dal suo insediamento come primo ministro, nel 2010, il governo Orban è riuscito a far passare una riforma della Costituzione, con un’impronta nazionalista e confessionale, che riduce l’autonomia della Corte costituzionale e ridisegna i confini dei distretti elettorali, così da garantire al suo partito facili successi. Con la nuova legge sulla stampa ha, poi, trasformato la televisione di stato in un riverbero del Governo, mettendo a tacere tutti i media indipendenti. Da ultimo, si è reso protagonista della costruzione di uno dei più discussi “muri” anti-immigrati (ne abbiamo parlato qui e qui) e del referendum sul sistema di quote per i rifugiati voluto dall’UE. Un sistema che prevede la redistribuzione di 160 mila rifugiati nei 29 paesi membri e secondo cui l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere appena 1290 persone. Un numero talmente esiguo che non giustifica un referendum costato 48,6 milioni di euro (più di quanto si è speso per la Brexit), e che non si configura, di certo, come un’occasione di espressione democratica della volontà dei cittadini.
Eppure Viktor Orban, non si attendeva una vittoria. Infatti, malgrado il mancato raggiungimento del quorum (il 57% degli ungheresi ha disertato le urne, sancendone il fallimento), l’Ungheria è divenuta capofila di quei paesi che si oppongono alle quote di migranti decise dal Consiglio europeo, e la figura di Viktor Orban e la sua “democrazia illiberale” hanno trovato numerosi seguaci nei paesi limitrofi, quali Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca.
Ma il risultato del referendum non è neanche una vittoria per l’Unione Europea, che non deve abbassare la guardia. Orban ha sfidato l’Unione Europea, portando avanti un progetto politico illiberale con molti proseliti, anche in Europa occidentale, attraverso l’uso di retoriche xenofobe e nazionaliste, di cui l’anti-europeismo diventa il collante ideale.
Anzi, nonostante il non raggiungimento del quorum, l’Europa avrebbe perso in partenza. Sia perché i richiedenti asilo non vogliono andare a vivere in Ungheria, in attesa dei risultati delle loro pratiche. E sia perché la politica migratoria è competenza esclusiva degli Stati membri, come dicono i trattati (quindi Orban, nonostante abbia firmato l’accordo, avrebbe molti appigli per aggirarli).
Se il clima in Ungheria è quello appena descritto, la recentissima sentenza n. 4004/2016 del Consiglio di Stato che ha annullato il trasferimento di un richiedente asilo “dublinato” verso l’Ungheria, perché ritenuto paese ‘non sicuro’, (è stato stabilito che ’si possa ritenere fondato il rischio che il provvedimento impugnato esponga il ricorrente alla possibilità di subire trattamenti in contrasto con i principi umanitari e con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE’), assume una particolare rilevanza.