Cécile Kyenge è ministro da 5 giorni, e il gioco combinato di aggressioni e intimidazioni si è mosso con la consueta complementarità di ruoli, maschere e toni, toccando livelli altissimi di volgarità. Si va dagli insulti irriferibili di Borghezio e altri leghisti, all’unanimità dei media nel caratterizzarla come “di colore” (escludendo dai titoli ogni altra possibile informazione), al recupero, da parte di chi rappresenta le Istituzioni, dei peggiori cascami razzisti.
Prima per strada, poi sui blog, da anni l’espressione qualunquista più sconfortante, quando si parla di immigrati o di rifugiati o di rom, è “se proprio ci tenete, perché non li prendete a casa vostra?”, con la variante anti-istituzionale: perché il ministro, il sindaco, l’assessore non se li porta a casa sua?”.
Ora è il governatore del veneto, il leghista Zaia, che raccoglie questo tipo di pattume, e dimenticandosi di avere responsabilità istituzionali (da anni) aggredisce chi responsabilità più alte delle sue riveste da poche ore. E chiede alla neoministra di visitare la vittima di uno stupro; motivo, il colore nero della pelle dello stupratore, lo stesso colore del nuovo ministro: una vera ossessione, a quanto pare.
Il lettore di questo sito non ha certo bisogno di argomentazioni, per reagire con orrore e nutrire preoccupazioni nei confronti della sortita di Zaia, del resto qualificata come razzista da forze politiche e giornalisti. Mi interessa qui riproporre una riflessione che troppo spesso viene lasciata cadere.
Se l’atteggiamento nei confronti degli immigrati (nonché dei rom, e dei richiedenti asilo) fosse, in area democratica, meno inquinato da pregiudizi, banalità ambigue, opportunismi scandalosi, le trovate come quelle di Zaia avrebbero terra bruciata intorno e forse a un Presidente della Repubblica, o a un Presidente del Consiglio verrebbe in mente di intervenire con tutta l’autorità del loro ruolo a censurare i risvolti istigatori al crimine di tanta stupidità.
E’ questo, invece, che manca, e a cui Cécile Kyenge, con una minoranza di parlamentari e la presidente della Camera Laura Boldrini dovranno lavorare: un cambiamento culturale (e cioè di convinzioni, linguaggi e pratiche) di chi a parole si schiera con loro, ma rischia di perpetuare giochi pericolosi.
Le forze politiche che oggi redarguiscono (giustamente) Zaia sarebbero più credibili se non avessero mostrato in un passato recente cedimenti di vario genere: cedimenti linguistici, che hanno favorito le categorizzazioni di Zaia, che dice “efferato” come già Veltroni da sindaco nei confronti di delitti, purché compiuti da romeni, e “tolleranza zero”, come troppi “democratici” abbagliati dalla gita nella New York di Giuliani, prima e dopo che si sapesse, tra le altre cose, che i risultati di quella campagna erano stati falsificati; e cedimenti istituzionali, come dimostra più di un esempio di assecondamento a richieste, magari meno esplicite ma non dissimili, di quelle di Zaia.
La scarsa memoria cui si vuole ridurre una popolazione invitata a diventare definitivamente pubblico televisivo non ci impedisce di ricordare che nel dicembre 2000, poche settimane prima delle elezioni che videro la sconfitta del centrosinistra, si inscenò una indegna campagna di stampa sul “pirata albanese”, trovato in possesso della patente, dopo che gli era stata restituita al termine del sequestro in seguito a un incidente in cui aveva perso la vita un bambino. In quell’occasione l’allora ministro di Giustizia si recò a visitare i familiari del bambino, e insieme a un altro ministro del governo Prodi si diedero a comportamenti così narrati dal compianto Giuseppe D’Avanzo (http://www.repubblica.it/online/cronaca/pirata/albanese/albanese.html): “Il ministro della Giustizia Piero Fassino chiede il fascicolo del processo di Bita Panajot, come se a suo favore avesse giocato la decisione dei giudici e non contro di lui una severa pena. Di peggio fa il ministro dell’Interno Enzo Bianco. Scatena contro l’albanese la polizia e i carabinieri. Il “bastardo” viene fermato e ancora fermato. Gli perquisiscono la casa, e l’auto. Gli ritirano la patente. Si cerca, e per il momento non si trova, l’occasione per sbatterlo di nuovo in galera o quando tutto manca di rimandarlo sui monti da dove è venuto. Non soddisfatto, il ministro va in televisione e promette: “Oggi ha un regolare permesso di soggiorno, valuterò la possibilità di revocarlo”. Sembra che le regole non possano valere per quel “bastardo” di Bita Panajot. E’ un albanese, un cittadino di serie Z, prigioniero di un diritto minore che prevede leggi che si possono cambiare come meglio conviene per rasserenare l’opinione pubblica”. Passò in silenzio invece la lettera di una madre, che dovrebbe entrare in un manuale di educazione civica (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/12/07/politici-non-usate-il-dolore-di-una.html), e di cui riporto poche righe:
“L’altra sera ho assistito alla trasmissione “Porta a porta”, dedicata alla vicenda del piccolo Alessandro e dell’albanese che lo ha investito. A metà programma ho dovuto spegnere. Ero furiosa, indignata, piena di rabbia. Provo a spiegarmi. Mio figlio Nico è stato ucciso quattro anni fa ad un semaforo. Tornava dalla palestra, aveva diciassette anni. Era il 18 dicembre del ’96. Un mercoledì sera, le sette e mezzo. Nico era in motorino. Si è fermato al semaforo della tangenziale, uno degli incroci più trafficati di Prato. Un furgone non ha rispettato il rosso, e l’ha investito. L’uomo che era alla guida non è un albanese. E’ un cittadino italiano. Un distinto signore toscano, quarant’anni, senza precedenti. Per quell’incidente non ha scontato alcun giorno di galera. Ha continuato a guidare regolarmente fino al processo, che si è celebrato l’anno scorso. Ha patteggiato, due anni con la condizionale, e patente sospesa per pochi mesi. Quindi nessuno più di me può capire la disperazione della mamma di Alessandro. So anch’io che l’immigrazione è un problema reale e che merita l’attenzione di tutti. Quello che è indegno è che i politici e la tv si siano serviti del dramma di un bambino per bassi scopi di audience e di campagna elettorale, e che non abbiano esitato a istigare in questa mamma l’odio verso gli immigrati. Ma il dolore di una famiglia non si può strumentalizzare. Quando ti muore un figlio così, non conta se chi te l’ha ucciso è albanese o italiano, se è clandestino o no, non è quello che ti fa sembrare meno morte quella morte: conta l’equità della legge. A me, quando chiesi come fosse possibile che all’investitore di mio figlio non venisse immediatamente ritirata la patente, mi fu risposto: signora, è la legge italiana. E io l’ho rispettata. Nessun ministro è venuto a trovarmi, nessuno ha circondato la questura di Prato o urlato insulti al pirata della strada italiano. Ma appunto, io ho accettato la legge. Quello che non accetto è che si sfrutti una tragedia umana per raccogliere consensi elettorali”.
Poche settimane dopo, fu la volta del delitto di Novi Ligure, attribuito nelle prime ore, senza alcun riscontro, ad “albanesi”, e perciò categorizzato come “efferato”. La sceneggiata di Fini e Fassino a ”Porta a Porta”, a chi avesse espulso più albanesi è stata immortalata nel documentario “Sono stati loro” di Guido Chiesa. La mattina dopo Erika confessò di essere autrice del reato, e pochi giorni dopo, il 5 marzo 2001, su «La Stampa» il vicedirettore Gianni Riotta e il sociologo Marzio Barbagli, si affrettarono a spiegare ai lettori che «gli omicidi all’interno della famiglia ci sono sempre stati». Di albanesi omicidi senza alcuna traccia si finse di non aver parlato, e si smise di parlare di “efferatezza”. Nessuno chiese scusa per avere rinfocolato il pregiudizio razzista; neppure le testate prestigiose che avevano assicurato: testimoni hanno visto fuggire dalla casa del delitto due individui. Propongo alle amiche Cécile Kyenge e Laura Boldrini di programmare una visione del lavoro di Chiesa in Parlamento: dura soli 40 minuti.-