“Ogni espediente retorico è buono pur di esorcizzare il fatto che il razzismo possa allignare anche tra le classi popolari, soprattutto in fasi, come l’attuale, di grave crisi economica, disoccupazione, carenza di servizi, radicale restrizione del welfare state; nonché di declino di socialità e solidarietà, democrazia ed etica pubblica, per non dire dell’assenza di una strutturata sinistra “di classe” (…) Non si ammette neppure che la “rabbia”, il risentimento, il rancore possano esprimersi nella forma della xenofobia, anche grazie a imprenditori politici del razzismo capaci di deviare questi sentimenti verso i capri espiatori più vulnerabili“, scrive l’antropologa Annamaria Rivera sulla pagina del suo blog di MicroMega. Un’interessante ed acuta lettura su quanto accaduto a Roma, nel quartiere San Basilio, e sul ricorrente tema della cosiddetta “guerra tra poveri“, addotta sempre più spesso dai media e dai politici come formula per banalizzare e occultare ogni manifestazione xenofoba.
di Annamaria Rivera
Ora che va spegnendosi l’attenzione dei media, conviene prendere spunto dalla protesta di stampo razzista che si è consumata il 6 dicembre scorso nella borgata romana di San Basilio, per decostruire alcune retoriche che ne hanno contraddistinto la narrazione. Com’è ben noto, l’esito è stato alquanto triste: sebbene legittima assegnataria di un alloggio popolare, l’onesta famiglia operaia di origine marocchina, con tre bambini piccoli a carico, è stata costretta a rinunciarvi e ad allontanarsi, terrorizzata dall’aggressiva protesta di alcune decine di residenti, condita da insulti razzisti.
Anche questa volta, giornalisti e commentatori vari, nonché rappresentanti delle istituzioni, compresa la sindaca di Roma, hanno ceduto alla tentazione di evocare il ricorrente teorema della “guerra tra poveri”: divenuto luogo comune, legittimato perfino – come ho scritto altrove – da qualche studioso autorevole o reputato tale.
“Guerra tra poveri” è la formula magica che permette di eludere la dialettica tra le dimensioni istituzionale, politica, mediatica e sempre più spesso anche “popolare”, che di solito caratterizza il razzismo, non solo quello odierno. Finendo così per fare dei poveri “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista; oppure, all’opposto, per minimizzare le manifestazioni di xenofobia se compiute da soggetti subalterni.
Allorché è usato da locutori di sinistra, anche “radicale”, questo cliché in non pochi casi vale ad assolvere da ogni responsabilità gli aggressori di turno, al massimo ammettendo che essi “cadano nelle trappole” del potere.
In definitiva, i subalterni sarebbero null’altro che esecutori passivi e inconsapevoli di coloro che fomentano una tale “guerra” (in realtà, del tutto asimmetrica): cioè le classi dominanti, le politiche neoliberiste, il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea, il governo, l’amministrazione comunale in carica «e quant’altro». In riferimento al caso di San Basilio, su un foglio di sinistra si è arrivati a sostenere che sarebbero i media mainstream ad aver inventato di sana pianta la protesta razzista dei residenti.
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