Quaranta persone sono morte al largo delle coste libiche. La barca su cui viaggiavano in 130 nel tentativo di raggiungere l’Europa è naufragata a 50 km a Est di Tripoli. Sono 52 le persone tratte in salvo, e più di trenta i dispersi.
La notizia, che risale a martedì scorso, è stata data solo domenica dal governo libico. “Avverto il mondo e in particolare l’Europa: se non si assumeranno le proprie responsabilità, la Libia potrebbe facilitare il transito dei flussi di migranti”: così il ministro dell’interno Salah Mazek, che ha sottolineato come la Libia abbia “pagato la sua parte. Ora è il turno dell’Europa”.
Di fronte a dichiarazioni di questo tipo, non si possono non ricordare le violenze e le torture a cui sono costantemente sottoposti i migranti in Libia, un paese che non hai mai firmato la convenzione di Ginevra e che non garantisce il diritto di asilo. Le persone che pagano il prezzo più alto sono le donne e gli uomini che, dopo aver dato ingenti quantità di denaro ai trafficanti, affrontano viaggi massacranti, spesso subendo torture e violenze e rischiando anche la vita, come successo alle quaranta persone che l’hanno persa martedì scorso.
La posizione del ministro dell’interno libico è stata ammorbidita da una nota del governo: Tripoli ha confermato il proprio impegno a collaborare con l’Europa, spiegando comunque di aver bisogno dell’aiuto dell’Unione europea per fronteggiare il flusso di migranti in arrivo nel paese con l’intenzione di imbarcarsi. Nello specifico, l’aiuto dell’UE sarebbe utile “per il controllo delle frontiere, per la preparazione del nostro personale, per il controllo satellitare di questi flussi“: lo ha sottolineato il premier libico Ali Zeidan in un’intervista al quotidiano La Repubblica. “La Libia deve essere aiutata nel gestire questo problema – ha detto il premier, ricordando anche la fragilità politica, economica e sociale in cui versa il paese. Una condizione che Zeidan ha definito “atipica”, in cui “il controllo delle frontiere è impossibile”. “L’assistenza dell’Unione europea– ha aggiunto il ministro dell’interno Salah Mazek – permetterebbe al paese di fermare i migranti che arrivano illegalmente dalle nazioni sub sahariane, diretti in Europa”.
Nel 2011, mentre nel NordAfrica si espandeva la cosiddetta “Primavera araba”, Gheddaffi dichiarò che se l’UE non avesse cessato di sostenere le rivolte in corso a Tripoli avrebbe bloccato ogni cooperazione in materia di gestione dei flussi migratori. Parole che, seppur con tutti i distinguo del caso, tornano alla mente oggi, dopo le dichiarazioni iniziali del ministro dell’interno Mazek.
Quale posizione assumerà l’Unione europea? Incrementerà ancora i fondi per il controllo dei confini?
La questione, come detto tante volte, non può risolversi né in una costante militarizzazione delle frontiere né in una loro progressiva esternalizzazione. Ci sono luoghi del mondo da cui le persone continueranno a volersi spostare, paesi in cui le condizioni di vita sono talmente difficili da far si che la gente sia disposta a pagare cifre ingenti e rischiare la vita per lasciarli. Meno di un anno fa Amnesy International esprimeva preoccupazione per i risvolti in tema di diritti umani derivanti dalla cooperazione tra Italia e Libia in materia d’immigrazione: una cooperazione che, come espresso allora da Amnesty ma anche da molte altre associazioni, risulta finalizzata esclusivamente a rafforzare i controlli di frontiera, priva di qualsiasi riferimento alla tutela dei diritti umani che, come denunciato da molti dossier, vengono in Libia costantemente violati. Per questo motivo Amnesty chiedeva all’Italia di “non sottoscrivere alcun accordo con le nuove autorità di Tripoli fino a quando quel paese non avesse dimostrato di rispettare e proteggere i diritti umani e di aver posto in essere un sistema adeguato per esaminare e riconoscere le richieste di protezione internazionale”.
Ad oggi, la situazione per i migranti in Libia non è cambiata molto. Inoltre, ancora una volta sembra che i diversi paesi usino il corpo dei migranti come terreno di gioco e di scambio per accordi politico-economici. Ancora una volta, torniamo a dire che la posta in gioco non può essere il controllo delle frontiere, ma la garanzia dei diritti. É sicuramente necessaria una gestione dei flussi, che dia però la possibilità a chi vuole lasciare il proprio paese di farlo in una condizione di sicurezza, lontano dai trafficanti che tante volte vengono additati dai politici come i responsabili delle morti in mare.
La grande responsabilità risiede in realtà, oltre che negli squilibri economici, politici e sociali presenti a livello mondiale, nelle normative che impediscono di fatto la circolazione delle persone. Una presa di responsabilità reale esigerebbe non la firma di accordi con un paese che viola i diritti umani, bensì dei cambiamenti normativi a livello nazionale – in Italia – e a livello europeo, che prevedano ad esempio l‘istituzione di canali umanitari e la possibilità di chiedere protezione nelle sedi diplomatiche presenti nei paesi di provenienza.