Dopo l’orientamento manifestato da molti Tribunali (Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Torino, Trento, ed altri), la Corte di Cassazione con la decisione n. 4890/2019, diffusa nella giornata di ieri, esprime un importante orientamento in materia di regime intertemporale della nuova disciplina che riguarda la protezione umanitaria.
I giudici hanno stabilito che le istanze di protezione internazionale presentate prima del 5 ottobre 2018, ovvero prima dell’entrata in vigore della nuova legge, devono essere esaminate secondo la vecchia normativa (ovvero ai sensi dell’ex art.5 c.6. d.gls. n.286 del 1998).
La Suprema Corte ha esaminato il ricorso di un cittadino della Guinea, la cui domanda di protezione internazionale era stata respinta dal tribunale di Napoli, dopo aver esperito tutti i gradi di giudizio. La Cassazione si è allora interrogata su quale normativa applicare, visto che la nuova legge (L. 132/2018, ndr), al momento dell’udienza, era già entrata in vigore. Per definire la sua decisione, la Corte innanzitutto ha preso atto che il cosiddetto “decreto sicurezza” ha previsto espressamente due commi (comma 8 e 9) che disciplinano i permessi già rilasciati (che rimangono in vigore fino alla scadenza dopo la quale saranno applicate le nuove disposizioni) e quelli da rilasciare, ma per i quali la Commissione Territoriale ha già accertato i presupposti per il rilascio del permesso per motivi umanitari. In questo caso, visto che tale permesso non è più previsto dalla normativa vigente, viene rilasciato un permesso per “casi speciali”, ma secondo il regime transitorio: ovvero valido due anni e convertibile.
Non sono “normati” (e fino a questa decisione non vi era chiarezza), invece, i casi ancora da decidere (in attesa di convocazione presso la Commissione Territoriale o di pendenza di giudizio presso il Tribunale, a seguito di un ricorso) o per i quali c’è stata già una prima decisione negativa per il richiedente asilo.
La prima sezione civile della Cassazione ha, quindi, deciso di applicare il principio giuridico che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” (art. 11 delle preleggi) per non creare “disparità ingiustificate e irragionevoli di trattamento dovute esclusivamente ad un fattore del tutto estrinseco e accidentale quale la durata del procedimento di accertamento”. Il cittadino straniero, sulla base delle norme modificate dal decreto del 2018 – scrive la Corte nella sentenza – “ha diritto a un titolo di soggiorno fondato su ‘seri motivi umanitari‘ desumibili dal quadro degli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dallo Stato, che sorge contestualmente al verificarsi delle condizioni di vulnerabilità, delle quali ha chiesto l’accertamento con la domanda. La domanda, di conseguenza, cristallizza il paradigma legale sulla base del quale deve essere scrutinato”.
La Corte si esprime anche in merito alle decisioni da prendere da parte della Commissione Territoriale. E precisa che “il potere-dovere delle commissioni territoriali di accertare le ragioni che possano residuare dal diniego delle cosiddetti protezioni maggiori”, come lo status di rifugiato, resta, “ancorché rimodulato alla luce della significativa compressione delle ragioni umanitarie realizzata dal decreto legge 113 del 2018”.
La Corte, tuttavia, sebbene abbia espresso un importante orientamento in merito all’interpretazione della normativa vigente, ha rigettato il ricorso del richiedente asilo.