Può essere definito un “successo” lasciare decine di persone per strada? Secondo noi no.
Ma è quanto hanno dichiarato la Prefetta Pantalone e il ministro dell’Interno dopo lo sgombero dell’ex istituto agrario di via Cardinal Capranica, nel quartiere di Primavalle, effettuato ieri a Roma con la mobilitazione straordinaria di decine di agenti.
Ci abitavano circa 340 persone, di cui 84 bambini. Uno di loro, fotografato con i suoi libri in mano davanti agli agenti, resterà il simbolo dell’assurdità di questa ennesima esibizione di forza.
Così come lo fu la donna sollevata e scaraventata contro l’asfalto dagli idranti che due anni fa, a piazza Indipendenza, furono usati durante lo sgombero altrettanto violento di un altro edificio occupato in pieno agosto (e sotto un altro governo).
Allora fu detto mai più.
Ma come spesso accade, le promesse che hanno a che fare con i diritti dei più deboli non sono mai mantenute.
Ieri il dispiegamento di forze è stato enorme.
Decine di agenti hanno avuto l’ordine di liberare lo stabile per “ripristinare la legalità”. Ma di quale legalità stiamo parlando? Di quella che ribalta le priorità dichiarando guerra non alla povertà, ma ai poveri. Senza distinzione di nazionalità.
Lo sgombero di via Cardinal Capranica era annunciato da tempo. Lo stabile faceva parte della lista delle 22 strutture occupate da sgomberare “ad alta priorità” stilata dalla Prefettura di Roma nel febbraio scorso e diffusa con grande clamore dal ministro dell’Interno. Formalmente, è stato disposto per la “pericolosità dell’edificio”. Ed è questa l’argomentazione utilizzata per rivendicare il “successo dell’operazione”. La retorica sicuritaria ha buon gioco in tempi in cui porsi delle domande è considerato tempo perso o, peggio, un lusso.
Così le cronache e il ministro possono esimersi dal ricordare perché quelle 340 persone (e le altre migliaia che vivono in spazi occupati nella capitale) vivevano lì. E l’evocazione della “legalità” e della “sicurezza” può essere utilizzata per fare tabula rasa di tutte le esperienze di autorganizzazione abitativa che dal ministro sono considerate un ostacolo al suo progetto di società: una società individualista, competitiva e escludente il cui unico fine sembra essere quello di mettere tutti contro tutti e, soprattutto, di espellere letteralmente dalla cittadinanza chi si trova in difficoltà.
Nell’occupazione di Primavalle non vivevano solo cittadini stranieri. C’erano anche alcune famiglie italiane. Tutte accomunate dall’impossibilità di pagare un affitto in una città che si distingue per il prezzo alto degli affitti: una città che è ostaggio da decenni dei grandi poteri immobiliari. Una città in cui le politiche di edilizia popolare pubblica sono state semplicemente dismesse.
E allora il teatrino che si è ripetuto in queste ore non sorprende.
Gli articoli di cronaca aprono con le pietre scagliate dai tetti, i materassi e i cassonetti dati alle fiamme. E con l’arresto di tre persone.
Il ministro e la Prefetta rivendicano la necessità di ripristinare la legalità e annunciano altri sgomberi imminenti lasciando capire che saranno di più, rispetto ai 22 già dichiarati urgenti.
Gli occupanti sono accusati di aver ostacolato le trattative con il Comune per cercare soluzioni alternative. Circa 190 persone sgomberate hanno accettato di essere trasferite in centri di accoglienza o in case-famiglia. Che non sono “soluzioni”, ma misure tampone temporanee e inadeguate.
La manifestazione svolta ieri pomeriggio a Montecitorio, molto partecipata, inizialmente convocata per protestare contro il decreto sicurezza bis, che sarà discusso in Parlamento la prossima settimana, ha colto dunque bene il nocciolo della questione.
C’è un nesso molto stretto tra lo sgombero di Primavalle e il decreto sicurezza bis: è la strategia dello scarto che tenta di ridurre all’invisibilità e alla rassegnazione, espellendoli violentemente dalle nostre città, tutti i soggetti più deboli, abbandonandoli al proprio destino.
Chi governa, incapace di garantire casa, lavoro, istruzione, salute a tutti (come prevede la nostra Costituzione), stravolge il concetto di sicurezza riducendolo ad una esibizione di forza contro i più deboli: poveri, disoccupati, senzacasa e migranti in primo luogo. E, con loro, contro tutti i soggetti organizzati che tentano di frenare la crescita delle diseguaglianze che attraversa in tutte le forme possibili e sempre più profondamente la capitale.
A Roma oggi il malgoverno è sfacciatamente visibile a chiunque vi metta piede anche solo per un giorno, ma viene da molto lontano. Le responsabilità dell’attuale amministrazione sono evidenti, ma anche l’ipocrisia di chi l’ha avuta in mano prima che si insediasse.
Servirebbe un progetto alternativo della città (e del paese) per rappresentare le 340 persone cacciate ieri, quelle che sono a rischio di sgombero nei prossimi mesi, le migliaia di migranti e richiedenti asilo che saranno espulsi dai centri di accoglienza, tutti coloro che non hanno il privilegio di avere un lavoro e un reddito sufficienti per vivere una vita degna. E i molti cittadini che non si arrendono all’idea di veder trasformate le nostre città in fortezze militarizzate riservate ai ricchi.
Le mobilitazioni delle ultime settimane sul caso Sea Watch, per Mediterranea, contro il decreto sicurezza e in solidarietà con le famiglie sgomberate ieri segnalano che gli anticorpi sociali in questa città ci sono ancora e sono molti. Insieme si sono dati un nuovo appuntamento per la prossima settimana ancora a Montecitorio, quando inizierà la discussione parlamentare del pessimo decreto sicurezza bis. Probabilmente l’approvazione del decreto sarà imposta ancora una volta con il voto di fiducia. Ma sarà importante manifestare ancora una volta il nostro dissenso.
Non in nostro nome.