“Ci vuole poco per distruggere. Ci vuole molto più tempo, e soldi, per costruire”. Lo sa bene M., signore ucraino che nell’ex baraccopoli di via delle Messi d’oro, a Ponte Mammolo, ci vive dal 2006. “Avevamo sistemato tutto bene: avevamo le nostre piante, un piccolo giardinetto. E i gatti: dieci. Tutti vaccinati e sterilizzati, con i certificati rilasciati dalla Asl. Andavamo fino a Marconi, per farci dare i documenti per i gatti. Però ora non li ho più, questi attestati: sono sotto le macerie”.
Le ruspe lunedì mattina hanno buttato giù tutto, senza dare il tempo alle persone di prendere nulla, nemmeno i documenti o i soldi (Ne abbiamo parlato qui). Solo chi era presente al momento dello sgombero è riuscito, dopo molte richieste, ad avere cinque minuti per prendere almeno i documenti, il permesso di soggiorno. Ma tante persone non erano sul posto: e quando sono arrivate si sono trovate davanti lo scenario terribile che ora, a distanza di tre giorni dalle operazioni portate avanti dalle forze dell’ordine, si può ancora vedere davanti all’ingresso della metropolitana Ponte Mammolo. Tutto è distrutto: le casette dei cittadini ucraini – che affermano di aver avuto, nel lontano 2006, l’autorizzazione ufficiosa e verbale dagli stessi funzionari del Comune di Roma a vivere lì e a costruire le case -, quelle dei latinoamericani – che lo scorso febbraio avevano ricevuto la visita di Papa Francesco – e quelle degli eritrei.
I cittadini ucraini e sudamericani ora sono ospitati da amici. Gli eritrei, invece, da due giorni dormono nel parcheggio di fianco alla stazione metro. Molti sono andati via, provando a lasciare la città. Quelli presenti sono circa un’ottantina: l’età media è di vent’anni, moltissimi hanno 15, 16 anni. Ci sono anche molte giovani donne, e qualche bambino piccolo. Quasi tutti sono titolari di protezione internazionale: ciononostante, da più di dieci anni vivono in una vera e propria baraccopoli alla periferia di Roma, senza che venga loro garantito alcun diritto basilare. E dire che, in quanto rifugiati, avrebbero diritto al sostegno delle istituzioni nei loro percorsi di inserimento sociale. Invece, l’unico intervento istituzionale è stato proprio lo smantellamento del campo.
“Stiamo smantellando un ghetto, dove vivevano in duecento, di diverse nazionalità, in condizioni insopportabili per una città come la nostra dove nessuno dovrebbe vedersi privato della dignità personale – dichiarava lunedì Francesca Danese, assessora alle Politiche sociali e abitative di Roma Capitale – Ci siamo attivati per indicare una soluzione praticabile. Un primo gruppo di persone di origine eritrea si è già trasferito in un centro per rifugiati; donne e bambini avranno una sistemazione in situazioni protette. L’assessorato e il dipartimento sono presenti sul luogo con assistenti sociali, due unità operative della Sala operativa sociale e personale dell’Ufficio immigrazione”.
Durante lo sgombero erano presenti l’Assessore alle politiche sociali del IV Municipio Maria Muto ed Emiliano Sciascia, presidente del Municipio IV, insieme ad alcune persone della Sala operativa sociale e dell’Ufficio immigrazione. Nessuno di loro ha saputo dare risposte o informazioni alle persone che, in dieci minuti, si sono viste privare di quel poco che avevano. Dignità personale compresa, nonostante le dichiarazioni dell’assessora Danese, che in via delle Messi d’Oro non è ancora andata.
Una volta finito lo sgombero, i rappresentanti istituzionali sono andati via, scortati dalle forze dell’ordine. Anche la protezione civile, presente durante le operazioni, se ne è andata.
Chi ha potuto si è rifugiato da amici. Chi dell’Italia conosce a malapena la lingua è rimasto nel parcheggio. Anche perché il centro Baobab di via Cupa, dove sarebbero dovuti essere trasferiti, non è stata considerata una “soluzione praticabile” dalle persone “stanziali”, ossia dai cittadini eritrei con i documenti che quel posto – tra l’altro coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale- lo conoscono bene. Molti ci hanno già vissuto, alcuni erano lì fino al 30 aprile: diversi testimoni denunciano che a fine aprile il centro sarebbe stato chiuso, mandando via le persone presenti, senza spiegare il motivo. Persone che sono tornate nell’unico punto di riferimento che conoscono, ossia l’insediamento di Ponte Mammolo. Da dove pochi giorni dopo sono state sgomberate con l’ausilio delle ruspe, per essere invitate ad andare, assurdamente, sempre al centro Baobab. E invitate è la parola giusta: nessuno ha dato informazioni ufficiali alle persone presenti, nessuno ha predisposto pullman per il trasferimento. Semplicemente, in modo informale, è stata fatta circolare la voce di recarsi autonomamente nel centro di Via Cupa. Chi lo conosceva non ci è andato: le persone che al momento sono al Baobab sono tutte “transitanti”, gente appena arrivata in Italia, dove vorrebbe rimanere solo il tempo sufficiente di capire come muoversi per ripartire verso il Nord Europa.
In questa situazione di abbandono istituzionale, le uniche realtà presenti sul posto sono i movimenti romani e alcune associazioni. Medu (medici per i diritti umani) e AmbulAnti, un poliambulatorio autogestito da un gruppo di medici, si sono dati appuntamento nel parcheggio per prestare le prime cure e visitare le persone, dando loro alcune medicine di base. Diverse occupazioni del territorio aiutano con i pasti: chi porta riso e lenticchie, chi pasta al sugo, succhi e tè freddo. Altri raccolgono indumenti e coperte. Tutto è utile a queste persone a cui la fretta delle ruspe non ha concesso di prendere alcun effetto personale. E tutto viene portato autonomamente dalle varie realtà associative e di movimento: la deresponsabilizzazione delle istituzioni è pesante e evidente.
Anche l’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ha espresso “preoccupazione” per quanto avvenuto, spiegando che in realtà una discussione in merito all’ex campo era stata avviata: ci sarebbe un tavolo di lavoro aperto presso la Regione Lazio, che coinvolgerebbe il Comune di Roma e alcune associazioni. “Sorprende che il Comune abbia deciso di interrompere questo percorso di concertazione, e che sia stato deciso di eseguire uno sgombero coatto prima che fosse pianificata una soluzione alloggiativa alternativa e stabile”, spiega l’Unhcr, proseguendo: “Le autorità sono responsabili per l’inserimento sociale dei rifugiati. Abbiamo chiesto un incontro al sindaco di Roma per condividere preoccupazioni e proposte. Dispiace dover constatare che queste richieste non hanno mai trovato seguito“.
Il sindaco di Roma Ignazio Marino non ha risposto all’Unchr, né alle altre associazioni che ne hanno lamentato l’assenza, come ad esempio ha fatto Medu con una lettera aperta. Dispiace anche, aggiungiamo, che in questi lavori di concertazione, poi evidentemente caduti nel vuoto, non siano state coinvolte in modo continuativo le uniche realtà presenti da anni sul territorio, o i gruppi che da giorni si danno il cambio per non lasciare sole queste persone. L’associazione Prime Italia, che da tre anni porta avanti azioni di aiuto dentro al campo, chiede con forza l’apertura di centri di transito e il ricollocamento sostenibile e partecipato per le persone stanziali.
Oggi alle 16.30 è in programma il Consiglio Municipale, dove dovrebbe intervenire il neo prefetto Franco Gabrielli, e forse anche l’assessora Danese. Le realtà che in questi giorni si sono mobilitate per aiutare le persone sgomberate si sono date appuntamento a via delle Messi d’Oro alle 15.30, per andare insieme davanti al Consiglio Municipale in via Tiburtina 1163 e denunciare l’ingiustizia dello sgombero, e dell’emergenza che quest’operazione ha creato, nelle sedi istituzionali.