Un piccolo e nascosto articolo pubblicato sulle colonne de La Stampa di due giorni fa, racconta l’epilogo (come spesso accade, ne abbiamo notizia soltanto alla fine) di una vicenda di razzismo quotidiano che ha visto coinvolta una intera famiglia di cittadini marocchini. Siamo a Roma, o meglio nella Torre 3 delle case popolari a largo Ferruccio Mengaroni, a Tor Bella Monaca. Due condomini italiani (una coppia) hanno perseguitato per circa 2 anni e messo in atto pratiche intimidatorie, nonché razziste, per cercare di cacciare ad ogni costo i vicini di casa, soltanto perché “stranieri”, ma pur entrati in possesso della casa popolare nel pieno rispetto dei requisiti previsti dalla legge.
La convivenza si era rivelata difficile sin dal primo giorno di arrivo della famiglia nella Torre 3, nell’agosto del 2013. I nuovi arrivati, Brahim con sua moglie Badiaa e i loro 2 bambini minori, sono stati accolti con questa frase dai vicini di casa: «A voi stranieri danno la casa e a noi italiani no, a voi danno il lavoro e a noi no, avete la casa perché siete stranieri e non avete diritto all’accoglienza». Gli insulti e le vessazioni si sono ripetute nel tempo e con audace costanza. Non si tratta di episodi circoscritti, ma di una quotidianità fatta di insulti verbali e minacce («Dovete andare via, ve la faremo pagare, qui non ci dovete più stare»), e di cartelli affissi nelle scale. Sulle pareti del condominio, infatti, la coppia ha affitto cartelli apertamente razzisti. Nei casi in cui i cartelli sono stati rimossi, la reazione dei due è stata rabbiosa: «Ristaccalo e ti taglio una mano! Siete pregati di non sbattere cancelli e porte. Specialmente la mattina alla sei», hanno scritto su di cartello citato dal pm, negli atti, nel marzo del 2015. «’A zozzi le carte delle merendine buttatele al secchio, no sul pianerottolo e lavateve le mani che il muro lo state a zozza’, abbiamo pagato per riverniciarlo, grazie» (cartello del 23 settembre 2015, anch’esso poi audacemente rimosso).
Sinché la coppia di italiani, forse stanca di ricevere “risposte” alle proprie provocazioni, è arrivata a bussare direttamente alla porta dei vicini stranieri: «Ti spacco la faccia, come ti sei permesso di togliere il foglio?», avrebbe detto l’uomo, spalleggiato poi dalla sua compagna: «Dovete lasciare il foglio, ve ne dovete andare».
Per il pm c’è stato poco da fare: si è trattato in modo inequivocabile di espressioni dal tenore razzista. Adesso i due condomini sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di atti persecutori (ovvero stalking) aggravati dall’odio “razziale” (un caso analogo si è concluso con una doppia condanna, in meno di cinque anni, ad una pena di 25 mesi da parte della Corte di Appello di Torino e risale all’ottobre 2018). Ad appesantire le contestazioni del pm, c’è anche l’aggravante di aver perseguitato il capofamiglia invalido al 100%.
Di storie come questa, ne abbiamo raccontate tante, e tante volte. Soprattutto a Roma.
Basti ricordare quando nel dicembre 2016, questa volta a San Basilio, una ‘rivolta’ di occupanti delle case popolari aveva impedito a una famiglia marocchina, padre operaio e mamma casalinga con tre bambini piccoli, legittima assegnataria di alloggio Ater appena sgomberato da una famiglia abusiva, di prendere possesso dell’abitazione.
Ancora, nel gennaio 2017, un’altra famiglia di origine egiziana con padre, madre e tre figli, si è vista sbarrare al Trullo la porta d’ingresso della casa popolare dallo schieramento di Forza Nuova, Casa Pound e ‘Roma ai Romani’. Nel luglio 2017, sempre a Tor Bella Monaca, e sempre per un alloggio popolare, Howlader Dulal, di origine bengalese e con cittadinanza italiana, cinquantadue anni e nel nostro Paese da ventisei, impiegato in un ristorante con regolare contratto, cardiopatico, con due figli, uno dei quali disabile, veniva picchiato perché “straniero” e “reo” di essere assegnatario di una casa popolare.
Quest’ultima notizia, come quella della condanna di Roberto Calderoli per gli insulti razzisti nei confronti di Cecile Kyenge (di cui abbiamo parlato qui), è un altro esempio pratico di come il razzismo, in tutte le sue sfaccettature, possa, ed anzi debba, essere combattuto (e quindi punito), oltre che con la determinazione da parte delle vittime a reagire alla discriminazione in atto, anche con l’applicazione delle leggi e con il supporto dei Tribunali.