Se al pronto soccorso a qualcuno viene in mente di spazientirsi di fronte a una bambina di 5 mesi, che viene portata dalla madre in condizioni di massima urgenza e muore poco dopo, definendola “una scimmia” (è successo a Sondrio ieri) e se il pianto disperato della madre viene definito un “rito tribale” da fermare, significa che siamo ben oltre il problema dell’”odio”.
C’è qualcosa di più profondo che sta trasformando parallelamente il nostro modo di pensare e di agire nella quotidianità. I commenti pronunciati, riportati dalla stampa locale, sono inenarrabili. E se, come sempre, parole e azioni vanno riferite e attribuite innanzitutto a chi parla e agisce, la frequenza con cui episodi simili si ripetono, devono indurci a non banalizzarli. Indignarsi in questi casi è il minimo che si possa fare, per non divenire complici, tutti, di tali atrocità.
E allora vale la pena fermarci un attimo.
E’ davvero “l’odio” il problema maggiore con cui dobbiamo fare i conti per tentare di arginare le forme molteplici di xenofobia, razzismo, antisemitismo, islamofobia e antiziganismo che attraversano gli spazi pubblici e i comportamenti quotidiani online e offline?
Oppure la nostra attenzione dovrebbe spostarsi sui processi storici, sociali, culturali e politici che nel corso del tempo hanno favorito il radicamento di stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni di matrice discriminatoria, xenofoba e razzista in fasce crescenti dell’opinione pubblica?
Non sono forse i discorsi odiosi e violenti anche l’espressione manifesta di una domanda di diritti e di protezione che l’attuale modello di “governo” del mondo lascia insoddisfatta e, anzi, tende ad acuire?
Sono domande cruciali oggi che si pone, almeno apparentemente, molta enfasi sulla degenerazione del dibattito pubblico, sempre più trasformato in un agone, popolato di insulti, offese e minacce contro i soggetti di volta in volta individuati come bersagli da colpire, che non si fermano neppure di fronte alla perdita della vita di una bambina di 5 mesi.
Quando parliamo di hate speech abbiamo in mente per lo più i messaggi online, ma il problema va ben oltre le maglie della rete e determina comportamenti molto concreti nella quotidianità.
Per questo abbiamo sentito l’esigenza di discuterne insieme a molti attivisti italiani e stranieri nell’incontro internazionale organizzato a Roma il 22 e 23 novembre scorsi. Un’occasione di discussione e confronto che è impossibile sintetizzare in poche righe, ma vale la pena tentare di restituire almeno alcuni passaggi.
Discorsi e comportamenti
C’è una relazione tra l’insulto inenarrabile pronunciato a Sondrio e quanto ci siamo sentiti ripetere in modo ossessivo in questi anni a proposito di migranti, richiedenti asilo, rifugiati e rom?
Secondo noi sì. Eccome se c’è.
La degenerazione del discorso pubblico è avvenuta contestualmente alla crisi di legittimazione delle istituzioni democratiche e dei partiti da un lato e alla diffusione dell’utilizzo delle nuove tecnologie dall’altro. Tra i discorsi ostili e le pratiche violente c’è una linea di continuità e in entrambi i casi il ruolo svolto da parte di chi ha potere, più protetto rispetto ad altri sul piano sociale e legale proprio grazie al ruolo che ricopre, è centrale. Sono le minoranze privilegiate (politiche, mediatiche, religiose) a orientare il discorso pubblico, a stabilire gli argomenti attorno i quali concentrare l’attenzione. E tra l’insulto contenuto nel Tweett di un personaggio potente e il corpo offeso di una neonata con un insulto razzista c’è una relazione. L’immaginario popolare si alimenta infatti di simboli e “argomenti” scelti da coloro che godono di una presenza permanente in tutti i canali di comunicazione pubblica. E lo stretto rapporto che lega i media main-stream con le minoranze al potere contribuisce a rendere sistematica la rete di comunicazione attraverso la quale i discorsi discriminatori e ostili si propagano. Il linguaggio e i temi che attraversano il dibattito politico contaminano facilmente il nostro linguaggio traducendosi in aggressioni quotidiane di fronte alle quali è difficile reagire senza una presenza sociale capillare e un agire consolidato sul territorio.
Il razzismo è un rapporto di potere
Questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Si sente in posizione di potere e al sicuro chi da della scimmia o dell’orango a chi ha di fronte. E ciò vale non solo per ministri, parlamentari, consiglieri regionali e comunali e leader politici, ma anche per la donna e l’uomo “qualunque”. Perché tutte le manifestazioni di xenofobia e di razzismo implicano e si reggono esattamente sull’esistenza di un rapporto sbilanciato tra chi discrimina, offende e fa violenza e chi da queste discriminazioni, offese e violenze è colpito.
Pensateci un attimo. Cosa fa la segretaria di una biblioteca comunale che nega l’iscrizione a una bambina ivoriana di 10 anni, con documento di soggiorno, se non esercitare la sua piccola posizione di potere? E cosa spinge sull’autobus a negare il posto a una donna incinta nera? E gli attacchi di gruppo, che prendono di mira per strada ambulanti bengalesi e richiedenti asilo, non sono forse esibizioni di potere e frutto della convinzione di “farla franca”?
Lessico e deumanizzazione
Non sono solo e tanto le parole più esplicitamente aggressive a sedimentare l’intolleranza e l’ostilità contro i “diversi” di volta in volta prescelti. O meglio. Oggi la loro propagazione è diventata talmente diffusa che, certo, dovrebbero attrarre la nostra attenzione quei movimenti e blog che ne organizzano scientificamente la diffusione. Conoscere meglio chi si nasconde dietro i profili online che macinano odio ci aiuterebbe forse a isolarli con maggiore facilità.
Ma forse dovremmo chiederci quanto siano perniciosi quei messaggi e quei lessici che grazie al ricorso a eufemismi e a espressioni meno esplicite e più sfumate contaminano nel profondo i nostri pensieri. Quanto ci ha fatto male la normalizzazione della parola “clandestino” nelle leggi, negli atti amministrativi e nei servizi giornalistici? Quanto ci fa male continuare a definire i centri di detenzione (italiani e libici) centri di accoglienza, nascondendo in questo modo la loro reale funzione? Quanto distorce il nostro modo di ragionare parlare di “invasioni” e di sbarchi e non guardare le singole persone che arrivano per mare perché non hanno altra scelta? Quanto ci fa male associare la parola “emergenza” al dovere di accogliere?
Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito. Tornerebbe utile rileggere Lessico del razzismo democratico (la prima edizione è del 2008) di Giuseppe Faso oppure L’imbroglio etnico (la prima edizione è del 1997) di Annamaria Rivera. Ci hanno insegnato da tempo che è il mix di retoriche aggressive e di denigrazioni meno esplicite ad essere letale per l’evoluzione del nostro dibattito pubblico.
Non solo narrazioni alternative, ma un diverso ordine delle cose
La “censura” e la sanzione dei discorsi più smaccatamente xenofobi e razzisti e la produzione di un racconto alternativo dei migranti e delle loro storie sono utili e indispensabili. Ma la consapevolezza che sembra affiorare con evidenza crescente è che senza mettere in discussione il razzismo nelle sue fondamenta strutturali, l’enfasi posta sulla lotta contro l’hate speech rischi di diventare un esercizio retorico. Dovrebbero farci riflettere gli argomenti maggiormente utilizzati dagli “odiatori”: insicurezza, invasione, allarme terrorismo e rischio identitario culturale e religioso e insostenibilità delle migrazioni, possono fare breccia laddove coagulano l’insoddisfazione profonda verso lo stato di cose esistenti, che è trasversale alle diverse fasce di popolazione.
Dunque, ben vengano un’ecologia delle parole e una maggiore correttezza dell’informazione, ma forse dovremmo tutte e tutti guardare con maggiore attenzione alla crisi di quel sistema democratico ed economico che continua ad alimentare disuguaglianze e disagi antichi e ne genera di nuovi.
Scarica: Words are stones. Analisi dell’hate speech nel dibattito pubblico in sei paesi europei.