I sondaggi realizzati negli ultimi anni sul tema del riconoscimento del diritto di voto amministrativo ai cittadini stranieri non comunitari, sia pure in misura diversa, ci dicono tutti la stessa cosa: i cittadini italiani sono in gran parte favorevoli. Per citare solo quelli più recenti, secondo un sondaggio effettuato dall’Osservatorio Politico del Centro Italiano Studi Elettorali dell’Università di Firenze, l’81% delle 1500 persone intervistate nel dicembre 2011 sarebbe favorevole a tale riconoscimento. Un dato analogo (76% delle persone intervistate), era stato già evidenziato nel 2009 dal Terzo Rapporto sulla sicurezza in Italia realizzato da Demos per Unipolis.
E’ legittimo allora chiedersi perché vi sia una così grande resistenza nel mondo della politica e, purtroppo, tra gli intellettuali, ad aprire le nostre istituzioni locali ad una partecipazione piena (diritto di eleggere ma anche di essere eletti) dei cittadini stranieri non comunitari (quelli comunitari hanno acquisito il diritto di voto nel 1996).
Negli ultimi quindici anni il tema è stato più volte al centro del dibattito pubblico italiano. Lo fu quando, e visti gli esiti era decisamente troppo presto, la Rete antirazzista propose nel 1997 una legge di iniziativa popolare che prevedeva il riconoscimento del diritto di voto a tutti i cittadini stranieri residenti in Italia da cinque anni nella convinzione che occorresse eliminare il sistema di “diritto separato” che distingue i cittadini italiani da quelli stranieri sulla base di una concezione della cittadinanza “di sangue” fondata cioè sull’ereditarietà.
Il diritto di voto, inizialmente previsto nella bozza di quella che poi divenne la legge n.40/98 nota come Turco-Napolitano, fu poi stralciato su grande insistenza dell’allora Ministro dell’Interno Giorgio Napoletano.
Nell’ottobre 2003 l’on. Gianfranco Fini, si fece fautore del deposito della proposta di legge costituzionale “Riconoscimento del diritto di voto ai cittadini stranieri non comunitari”, un’iniziativa che sia per la forma (una legge costituzionale è ben più difficile da approvare di una legge ordinaria) sia per i contenuti faceva trasparire una volontà assai scarsa di favorire realmente la partecipazione degli immigrati alla vita politica. Primo perché il diritto di voto non era “esigibile” ma azionabile: ovvero non era automatico ma il cittadino straniero avrebbe dovuto farne richiesta. Secondo perché esso sarebbe stato riconosciuto solo ai cittadini stranieri soggiornanti “stabilmente e regolarmente in Italia da almeno 6 anni” che avrebbero dovuto dimostrare “di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari.”
Poi nel 2005 l’iniziativa del comune di Genova provò ad aprire la strada al diritto di voto amministrativo dei cittadini stranieri attraverso la modifica dello Statuto comunale. Questa opzione, ripresa da altri comuni, fu dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato.
Così ci troviamo oggi, dopo ripetuti “annunci” e accesi dibattiti, nella permanenza della mancata ratifica del capitolo C della Convenzione Europea di Strasburgo del 1992 che prevede appunto il diritto di voto dei cittadini stranieri residenti nei paesi dell’Unione da cinque anni. Certo l’Italia è in buona compagnia, ma sono dieci i paesi che hanno introdotto da tempo il diritto di voto dei cittadini stranieri non comunitari nei propri ordinamenti (Belgio, Danimarca, Estonia, Irlanda, Islanda, Finlandia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi e Svezia).
In Italia le uniche forme di partecipazione dei cittadini stranieri non comunitari realmente sperimentate a livello locale sono quelle dei Consiglieri aggiunti e delle Consulte, cariche e organismi che sono privi di potere deliberativo.
Rispetto al 1997 la società italiana è molto cambiata: 4,8 milioni di cittadini stranieri stabilmente residenti (con un’incidenza del 7% sulla popolazione complessiva), tra questi i minori sono 993mila, più di 770.000 gli allievi e gli studenti di cittadinanza non italiana presenti nelle scuole elementari e medie, inferiori e superiori. Nel corso dell’inchiesta XXV Osservatorio sul capitale sociale, Noi, gli altri e la crisi, realizzata da Demos nell’aprile 2010 su 2058 persone intervistate, il 47% ha dichiarato di avere amici immigrati stranieri, il 35% di avere contatti con lavoratori immigrati in ambito lavorativo; i figli di un terzo degli intervistati (29,6%) avevano dei compagni di scuola stranieri e una quota simile (29,7%) ha dichiarato di avere vicini di casa che sono immigrati stranieri.
Le relazioni quotidiane sono divenute plurali, meticcie e non potrebbe essere altrimenti: benché atti e comportamenti discriminatori, intolleranti, xenofobi e razzisti siano diffusi, un’ampia parte dei cittadini italiani vive, lavora, studia e si incontra abitualmente con persone nate altrove o di origine straniera. E’ con tutta probabilità questa quotidianità delle relazioni a determinare i risultati dei sondaggi che abbiamo citato all’inizio, quotidianità che evidentemente non contraddistingue molti di coloro che ci rappresentano in Parlamento.
Perché una persona straniera che vive stabilmente a Roma, che qui ha costruito il suo progetto di vita non può acquisire il diritto di partecipare alle decisioni pubbliche che incidono sulla sua vita, sullo sviluppo del quartiere dove abita, sul sistema dei trasporti pubblici, sugli investimenti nei servizi per l’infanzia o in quelli sociali? In base a quale principio deve essere esclusa a priori dalla partecipazione alle elezioni amministrative? Non vi è alcuna logica in questa scelta, né può essere addotta la nota argomentazione secondo la quale l’esercizio della partecipazione dovrebbe essere riservato a coloro che “conoscono bene il funzionamento della società e delle istituzioni italiane”. I processi di inserimento sociale, economico e culturale di milioni di persone straniere sono andati avanti nonostante lo scarso apporto fornito dalle istituzioni pubbliche. Che il riconoscimento formale del diritto di voto non sia una condizione sufficiente per rendere effettivo il coinvolgimento attivo delle persone straniere residenti nelle nostre città è indubbio, ma è altrettanto evidente che sia un presupposto necessario. E’ indispensabile, certo, rafforzare le sedi e le opportunità di dibattito collettivo, di socializzazione non separata, di scambio e contaminazione culturale che possono rendere maggiormente effettivo un diritto riconosciuto solo sulla carta. Ciò non toglie che la garanzia di tale diritto debba essere innanzitutto assicurata dalla legge.