Roma, sabato 7 marzo, verso le 13.30, al mercato di via Sannio: ben noto per la vendita di abiti nuovi e usati, e per essere frequentato da una clientela molteplice per fasce di età e condizione sociale. Mentre ne percorro una delle corsie verso l’uscita, insieme con mio marito, una scena inaspettata ci colpisce come una frusta. Un tipo tarchiato, dall’aria eccitata, lancia insulti razzisti contro un giovane di bell’aspetto (di origine bangladese, poi capiremo), che sta davanti al banco di abiti maschili nuovi presso cui lavora: silenzioso, immobile, imbarazzato. Il tipo -egli stesso venditore, probabilmente titolare, del banco accanto- gli urla ripetutamente, in romanesco: “Scimmia, tornatene nella foresta!”. Un gruppo di uomini gli sta intorno, come lui a mangiare qualcosa. Alcuni sghignazzano, uno obietta: “Che stai a dì? Pure in Bangladesh ci hanno i grattacieli!”. Tutti ridono, divertiti dalla nobile tenzone. Dei clienti che passano, nessuno interviene.
Mi avvicino e grido al tarchiato di smetterla. Mi risponde, con tono minaccioso, che è libero di dire e fare ciò che vuole. Noi due ribattiamo che sta pronunciando ingiurie razziste, quindi punibili per legge, e minacciamo di chiamare i vigili urbani. Lui, per niente intimorito, si mette a sciorinare quasi l’intero repertorio di cliché razzisti: “Ce stanno a rubà tutto: case, lavoro, donne…”; “Ahò, se questi nun li cacciamo, i figli nostri hanno da fà i schiavi loro!”.
Mentre noi gli strilliamo che sta dicendo fregnacce da ignorante, alcuni della sua cerchia lo giustificano: “E’ il suo modo di scherzare. Lo fa ogni giorno…”. Mi giro verso il giovane bangladese, muto e imbarazzato, incrocio il suo sguardo, mi avvicino. Lui spezza il silenzio per mormorarmi, in un italiano quasi impeccabile: “Grazie, signora, ma lasci stare. Se no, per me è peggio, dopo”.
Ci allontaniamo di poco. Quando ci voltiamo, il razzista ha quasi finito di mangiare il suo panino. In modo ostentato spezzetta ciò che ne è rimasto e lancia i tocchi contro i piedi della sua vittima, gridandogli: “Tiè, magna, scimmia!”. Il bangladese non reagisce. Ci dirigiamo verso l’uscita, voltandoci un paio di volte per gridare di nuovo allo scalmanato di smetterla. Per tutta risposta, lui lancia con forza la bottiglia da cui ha bevuto, piena a metà d’acqua minerale, contro le gambe della sua vittima. La quale, pur con i pantaloni bagnati, resta immobile dinanzi al banco, e in silenzio.
Mentre usciamo, uno del mercato, seduto su una sedia al limite tra la corsia e il marciapiede, ci avverte sottovoce: “Lasciatelo stà, quello, è pericoloso. E’ fascista, come tutta la sua famiglia”.
E’ l’unico a censurare quel comportamento, ma si è guardato bene dall’intervenire in difesa della vittima. Anche lui ci lavora, in quel mercato. Non potrebbe più se si schierasse apertamente contro “quello”.
Continuare a lavorare lì sarebbe ancor più impossibile per il giovane bangladese, se mai osasse ribellarsi. Possiamo immaginare quale sia la sua vita: un lavoro al nero, senza alcuna garanzia, al servizio di un proprietario italiano che esige il massimo; probabilmente una famiglia da mantenere in patria; l’umiliazione quotidiana e la necessità di sopportare quel gioco sadico senza reagire.
Impotenti ci sentiamo anche noi, che pure siamo in posizione quanto meno pari a quella del suo persecutore. Qualunque cosa facessimo di più efficace, sarebbe pretesto per una pesante ritorsione nei suoi confronti.
La scena cui abbiamo assistito deve essere una sorta di copione perverso che si ripete ogni giorno, durante la pausa per il pranzo: quando i clienti son pochi e c’è un po’ di tempo per svagarsi. E’ un’esibizione di sadismo, tanto più eccitante per il fatto che la vittima, a causa della sua oggettiva impotenza, è costretta a recitare la parte del masochista. Tanto più esaltante per il fatto di avere intorno un coro compiacente che mostra di divertirsi. Anche quando uno del coro contraddice il primo attore –“Pure in Bangladesh ci hanno i grattacieli!” – è sempre all’interno del copione prestabilito.
Su piccola scala è una rappresentazione perfetta della dialettica razzista. Come nell’antisemitismo più classico, l’altro, pur se bianco, istruito, gentile, è comunque l’incarnazione di una minaccia (“Ci rubano tutto: case, lavoro, donne”) e di un complotto (“I figli nostri faranno i loro schiavi”). Proprio perché superiore al locutore razzista per istruzione e buona educazione, l’altro deve essere inferiorizzato come scimmia (che a sua volta è stata svalutata e degradata).
La dialettica razzista non è cosa che riguardi solo il carnefice e la vittima, né solo il contesto circoscritto del quale ho raccontato. Nel corso degli anni, il discorso razzista si è diffuso e legittimato come discorso pubblico quasi normale, soprattutto grazie alla pedagogia di massa (l’abbiamo scritto mille volte), esercitata dalla Lega Nord.
Il ricorso all’epiteto insultante di scimmia, ripescato dal repertorio del razzismo di stampo biologista, ereditato poi dal fascismo, è stato accreditato anche da locutori istituzionali, addirittura dal vice-presidente del Senato, Roberto Calderoli. Nel corso del 2013, il suo utilizzo ha conosciuto un’impennata vigorosa grazie alla persecuzione quotidiana ai danni di Cécile Kyenge, attuata soprattutto dai leghisti, Calderoli in testa. Così che “scimmia” si è banalizzato fino a diventare il nome dell’altro. Di qualsiasi provenienza e sembianze egli sia: negli stadi in tal modo s’insultano calciatori colombiani, brasiliani, italo-francesi, belga-marocchini, albanesi, napoletani, siciliani…
L’episodio di via Sannio, come altri simili, non attiene solo a pratiche discorsive. E’ anche una piccola spia dell’imbarbarimento della Capitale, della sua decadenza morale, della profonda infiltrazione nera e mafiosa che condiziona pure le relazioni quotidiane. Il razzismo è penetrato anche tra le classi subalterne, è arrivato nelle periferie popolari, fomentato da gruppi di estrema destra, compresi i “fascisti del Terzo Millennio”. Che oggi, protetti, rafforzati e ringalluzziti dall’alleanza con la Lega Nord, moltiplicano provocazioni e raid contro i migranti.
La riluttanza ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi popolari è ben esemplificata dalla frusta formula di “guerra tra poveri”, abusata anche a sinistra, pure nei casi in cui è evidente che si tratta, se mai, di guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, se pur disagiati, godono del privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più. Nel caso del mercato di via Sannio, il privilegio, anche quanto a posizione sociale, incoraggia il sadismo verso una vittima inerme, la complicità dei sodali del persecutore, il silenzio e l’inerzia dei testimoni.