Come ogni anno, il 16 novembre, in occasione della Giornata Internazionale della tolleranza, dichiarata dall’UNESCO nel 1995 per ricordare i principi ispiratori della Dichiarazione universale dei diritti umani, OSCE/ODIHR (Office for Democratic Institutions and Human Rights) ha reso pubblici i dati relativi al 2018 sui cosiddetti reati d’odio, noti anche come “hate crimes”, in 41 paesi del mondo, compresa l’Italia.
I reati d’odio, cosi come definiti da Odihr, sono atti criminali motivati da pregiudizi nei confronti di particolari gruppi di persone. Per essere considerato un crimine d’odio, il reato deve soddisfare due criteri: l’atto deve costituire un reato ai sensi del diritto penale e deve essere stato motivato da pregiudizi. Le motivazioni di pregiudizio possono essere generalmente definite come opinioni negative preconcette, ipotesi stereotipate, intolleranza o odio dirette a un particolare gruppo che condivide una caratteristica comune (come la provenienza o l’appartenenza ad un particolare gruppo nazionale, le caratteristiche somatiche, lingua, religione, orientamento sessuale, genere, comprese le persone con disabilità). I reati d’odio possono includere minacce, danni alla proprietà, assalti, omicidi o qualsiasi altro reato commesso con una motivazione di pregiudizio.
Gran parte delle informazioni e dei dati presentati nel report sono stati forniti dai cosiddetti National Point sui crimini d’odio (NPC), nominati dai governi degli Stati partecipanti all’OSCE. Ma particolare attenzione è stata dedicata anche alla raccolta di dati relativi alle motivazioni di pregiudizio specifiche e agli incidenti segnalati da gruppi della società civile, organizzazioni internazionali non governative e dalla Santa Sede.
Va sottolineato che i casi segnalati dalla società civile sono registrati e pubblicati come “incidenti d’odio” anziché come “crimini d’odio”. Questo perché l’Odihr non riesce a verificare se gli incidenti segnalati da gruppi della società civile possano essere classificati come denunce di “reati” in quanto tali, ovvero come casi ufficialmente registrati dalle forze di Polizia. Ogni incidente è accompagnato dalla fonte pertinente, che a volte può includere più di un’organizzazione. Ovviamente, ne consegue che, per diversi motivi, il numero ufficiale di casi riportato dalla società civile molto spesso differisce da quello riportato dalle Forze di Polizia. Dal 2017 in poi, al fine di sfruttare appieno le informazioni fornite, l’Odihr ha ampliato la visualizzazione dei dati con brevi descrizioni degli incidenti. Queste descrizioni vanno ad integrare i numeri aggregati e a mostrare le informazioni per paese, motivazione e tipo di pregiudizio.
Va fatto presente che l’ampia differenza tra i dati forniti dai diversi paesi, non significa riflette automaticamente una corrispondente differenza nel numero di reati commessi. I dati più alti forniti da parte di alcuni paesi possono essere determinati da una definizione più ampia dei reati d’odio o dall’esistenza di un sistema più efficace di registrazione dei dati. Cosi come va tenuto in conto il fatto che una maggiore incidenza di reati di odio registrati dalla società civile in relazione a motivazioni di pregiudizio specifiche o in determinati Paesi, può riflettere una maggiore capacità delle organizzazioni stesse a monitorare determinati tipi di reati d’odio. E come accade per la gran parte di questi rapporti (d’altro canto, ci teniamo sempre a ribadirlo anche per il nostro lavoro quotidiano fatto sul sito di sostieni.cronachediordinariorazzismo.org), si tratta di una fotografia del fenomeno inevitabilmente parziale.
Per aiutare tutti gli Stati europei a superare meglio le difficoltà di “codifica” dei reati, l’Odihr ha pubblicato anche una metodologia (ad integrazione del programma INFAHCT – Information Against Hate Crimes Toolkit) su come condurre indagini sulla “vittimizzazione”, per tentare di mappare anche i differenti reati d’odio non denunciati e le esperienze dirette che le vittime hanno avuto con organismi di giustizia, quando sono riusciti a sporgere denuncia.
Nell’infografica generale del report, Odihr evidenzia 2 dati importanti. Il primo è che 53 su 57 degli Stati partecipanti all’OSCE sono dotati di leggi in materia di reati d’odio, ma sono molti meno quelli che le applicano, ad esempio non registrando sistematicamente i crimini d’odio.
Il secondo dato generale che emerge è che gli “incidenti d’odio” (cosi come li abbiamo definiti prima, ndr) segnalati a Odihr sono in tutto 5.735 (ovvero 3.214 incidenti statistici disaggregati e 2.521 incidenti descrittivi), ma questi dati non sono comparabili tra i singoli Paesi o sulla base del movente discriminatorio.
Dei 41 paesi che hanno fornito delle statistiche ufficiali, sono solo 25 quelli che hanno disaggregato i dati delle forze dell’ordine, in base al movente discriminatorio. Queste cifre ufficiali sono integrate e completate, poi, dalle relazioni prodotte da 178 gruppi della società civile, che coprono 44 Stati partecipanti (mentre sono 34 gli Stati che hanno fornito dati da parte di organizzazioni internazionali).
I dati sull’Italia
In Italia, nel 2018, i reati d’odio comunicati a Odihr dalle Forze dell’ordine sono 1.111 (in costante aumento dal 2013 in poi, in particolare con una variazione accentuata proprio fra il 2016 e il 2017), dei quali ben 801 (con una leggera flessione rispetto all’anno precedente), ovvero il 72.10% sul totale, sono quelli che hanno alla base un movente razzista e xenofobo.
Tra i reati di matrice razzista che ricadono nei dati ufficiali, paradossalmente proprio nell’anno in cui i discorsi d’odio, e la conseguente violenza anche fisica, hanno avuto un grande impulso, i dati Odihr mostrano una lieve flessione in diminuzione: 220 casi a fronte dei 337 casi riportati in Italia nel 2017 per quel che riguarda l’incitamento all’odio, e 88 casi di violenze fisiche, a fronte dei 117 rilevati lo scorso anno.
A questi dati “ufficiali”, se pure frammentari e incompleti, si aggiungono i 186 “incidenti”di matrice razzista segnalati dalla società civile (ai quali però vanno anche aggiunti, perché disaggregati, anche i dati sui casi di incidenti ai danni di cittadini Rom, i casi di islamofobia e di antisemitismo).
La legislazione italiana non fornisce una definizione di reato d’odio. Questo tipo di reati, come tutti gli altri reati, sono registrati dagli ufficiali di polizia competenti, e non esistono linee guida o documenti politici che guidino la polizia nell’identificazione e nella registrazione dei crimini d’odio.
Le denunce di reato iniziali, comprese le informazioni sulle vittime e le informazioni sull’intervento della polizia e i riferimenti normativi, sono inseriti e archiviati nel database del Sistema di Indagine (SDI). Non esiste un marcatore specifico per ogni movente discriminatorio nel SDI, quindi i reati non possono essere disaggregati in base al movente. I reati commessi per motivi discriminatori diversi da quelli esplicitamente indicati nella legge, sono inseriti nel SDI come “reati ordinari”. E sebbene esista un sistema separato per monitorare questi ulteriori filoni di reati d’odio attraverso l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), non tutte le segnalazioni raccolte da OSCAD sono incluse nel database SDI.
Odihr osserva che l’Italia non ha riferito (come numerosi altri stati europei, fra i quali Francia e Germania) il numero di procedimenti giudiziari e di condanne effettuate per questo tipo di reato (ma sono intanto pervenuti i dati relativi al 2016 e 2017 con un notevole scarto tra denunce, processi e condanne). Fa eccezione, come negli anni passati, il Regno Unito, che con puntualità e precisione, riporta anche il numero di procedimenti e sentenze.
La sottostima del fenomeno razzista, tuttavia, come anche noi abbiamo spesso sottolineato nei nostri report, è la lente attraverso la quale leggere questi dati.
Innanzitutto, viene evidenziato che molte vittime non si fanno avanti per denunciare i reati d’odio, per una lunga e complessa serie di motivi. In secondo luogo, i dati ci dicono che non tutti gli incidenti segnalati alle autorità sono riconosciuti come potenziali reati di odio razzista, o registrati e trattati come tali. Infine, è spesso difficile rintracciare e seguire i casi di reati di odio in tutte le fasi, dalla denuncia alla condanna, a causa di diverse procedure di registrazione o classificazione.
Lunaria, dal canto suo, attraverso il suo lavoro quotidiano di monitoraggio, documentato e disponibile on line nel sito sostieni.cronachediordinariorazzismo.org, ha segnalato a Odihr, per il 2018, un totale di 238 casi: 5 casi di omicidio; 122 casi di violenza fisica contro le persone; 29 casi tra danni alla proprietà, furti, rapine, incendi dolosi, vandalismo e di profanazione di tombe; 82 casi di minacce o atteggiamenti minacciosi. Di questi casi forniti, poi, Odihr ne ha fatto una selezione in base ai criteri sopra descritti, inserendo la maggior parte di essi.
In linea con le conclusioni del report Odihr, anche quelle del dossier Words are stones. Analisi dell’hate speech nel discorso pubblico in sei paesi europei, realizzato da Lunaria in collaborazione con Adice (FR), Antigone-Centro di informazione e documentazione su razzismo, ecologia, pace e ambiente (GR), Grenzenlos (A), Kisa (CY) e SOS Racisme (S).
Il dossier concentra l’attenzione su quelli che sono definiti i discorsi di odio nel dibattito pubblico, ma evidenzia come la difficoltà di disporre di dati ufficiali comparabili a livello internazionale accomuni sia i discorsi che i reati di odio, anche a causa di definizioni che non trovano una declinazione normativa nelle singole legislazioni nazionali.