Un lavoro – un film, un racconto, un’analisi, un quadro, una fotografia – non è mai onnicomprensivo: ha un punto di vista, una prospettiva, un’inquadratura. Il punto di vista a cui ci hanno abituato è uno: maschio, bianco. I am not your negro contesta proprio a questo punto di vista, e lo fa in molti modi diversi. E’ un atto d’accusa, forte, asciutto e diretto. E’ un racconto degli Stati Uniti dal punto di vista dei suoi cittadini neri. Ed è la storia di questi cittadini, che narrano, finalmente, piuttosto che essere narrati.
Il protagonismo nero emerge nelle parole di James Arthur Baldwin, uno dei più grandi scrittori nordamericani della seconda metà del ‘900, critico sociale e intellettuale. La profonda voce narrante di Samuel L. Jackson ripropone Remember this house, ultimo progetto di Baldwin, datato 1979, ma rimasto inedito e incompiuto, portato alla luce dal regista haitiano Raoul Peck, già autore, tra gli altri, di The Man by the Shore, Lumumba, Death of a Prophet, Il giovane Karl Marx.
E’ il manoscritto di Baldwin a fare da filo conduttore del film: seguendo parola per parola le trenta pagine di Remember this house, emergono tre personaggi in particolare, Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King, Jr., protagonisti, in modi differenti, della lotta per i diritti civili. Tutti e tre assassinati per il loro impegno, nel film diventano trait d’union di una lotta combattuta quotidianamente da tantissimi altri “eroi” sconosciuti: dai neri impiccati sugli alberi ai manifestanti della città di Ferguson, dalla studentessa scortata fin dentro l’aula e riempita di insulti ai protagonisti del movimento Black Lives Matter, I am not your negro mette davanti agli occhi, e insieme nello stomaco e nel cervello, la storia dei neri d’America, in una carrellata di storie che descrivono la Storia, come afferma direttamente Baldwin in una delle interviste video con cui il regista accompagna i ragionamenti dello scrittore: “La storia dei negri americani è la stessa storia dell’America. E non è una bella storia”.
Oltre alle parole dell’intellettuale, che nel 1948 si è trasferito a Parigi andandosene da un paese che di gente come lui “non sapeva che farsene” – per poi tornare in patria a dare il proprio contributo nella lotta per i diritti civili – Raoul Peck mescola davanti allo spettatore immagini d’archivio e fotografie degli Stati Uniti odierni e delle storture ancora presenti, esplicitando persino la frattura presente all’interno dello scenario hollywoodiano, andando a palesare, e conseguentemente decostruendo, il razzismo implicito ed esplicito del mondo dello spettacolo americano, con un occhio particolare all’ambito cinematografico, fonte di immaginario popolare e cultura condivisa: esemplare in questo senso l’osservazione di Baldwin relativa al mito di John Wayne, con cui è cresciuto, salvo poi capire che “noi eravamo gli indiani che lui sterminava”. L’intreccio tra immagini di allora e di oggi non crea alcun corto circuito: purtroppo è tutto attuale, al massimo cambiano alcune sfumature.
Candidato all’Oscar come miglior documentario e Premio del Pubblico della Berlinale Panorama, distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema in collaborazione con Wanted, senza retorica, e senza trascurare il piacere di vedere un lavoro davvero ben fatto, I am not your negro colpisce portando sullo schermo la realtà, fatta di disuguaglianze, discriminazioni, razzismo. Una realtà che, al contrario del testo di Baldwin, non è inedita ma ben conosciuta: ma generalmente viene “solo” raccontata. In questo caso, è vissuta: il film trasuda il protagonismo di chi parla, vivendo in prima persona ciò che descrive. L’esito è debordante. E lo deve essere: uscire dallo schermo, poi dalle sale cinematografica, e riversarsi nelle strade e nelle piazze.
Serena Chiodo
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