Da giorni si moltiplicano le voci a proposito di un’abrogazione di Schengen e della conseguente reintroduzione delle frontiere interne. Ma l’Europa appare già divisa, e non serve una dichiarazione ufficiale per constatarlo: ad affermarlo sono piuttosto gli atti concreti.
Prove di divisione e hotspot
A due giorni dal Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio (qui la bozza pre-meeting), i capi di governo di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria -il cosiddetto Gruppo di Visegrád- si sono riuniti a Praga. Con loro anche i primi ministri di Bulgaria e Macedonia. “La Grecia ha fallito nella difesa dei confini Schengen dall’immigrazione di massa, quindi dobbiamo attuare un piano B con la costruzione di un muro a sud”: questo l’obiettivo dell’incontro, annunciato dal premier ungherese Viktor Orbán, che per primo aveva dettato la linea a proposito della costruzione di barriere ‘anti-migranti’ tra uno stato e l’altro (qui). I paesi riunitisi venticinque anni fa per promuovere il proprio ingresso nell’Unione si ritrovano ora nello stesso luogo per discutere la creazione di un muro di separazione: un curioso specchio dei passi indietro che si stanno compiendo.
Il nuovo, ennesimo muro dovrebbe, nelle intenzioni, innalzarsi tra la Macedonia e la Bulgaria e la Grecia, con lo scopo dichiarato di frenare gli ingressi delle persone che dal territorio ellenico risalgono verso il nord Europa passando per i Balcani. Proprio su questo punto si è recentemente espressa la Commissione europea, minacciando la reintroduzione delle barriere interne se Atene non risponderà alle richieste europee – rafforzamento dei confini esterni e inasprimento dei controlli e delle registrazioni dei migranti- entro al massimo tre mesi. Un ricatto vero e proprio, cui la Grecia ha risposto annunciando l’apertura di quattro hotspots entro domani, mercoledì 17 febbraio, sulle isole di Lesbos, Chios, Leros e Samos. Ogni struttura dovrebbe consentire la detenzione di 1.000 persone, per tre giorni, entro i quali i migranti dovrebbero essere registrati attraverso i rilievi dattiloscopici, per essere poi ricollocati nei paesi membri dell’UE o rimpatriati.
20 milioni a Serbia e Macedonia per gestire i confini
La Commissione europea è intervenuta anche sulla cosiddetta rotta dei Balcani, per provare a evitare che singoli paesi “intraprendano azioni inaspettate, che potrebbero avere conseguenze sugli altri stati”, come si legge nel documento diffuso il 10 febbraio. A ciò dovrebbe servire lo stanziamento europeo di 10 milioni di euro alla Serbia e di altrettanti alla Macedonia, “per aiutare praticamente la capacità dei paesi di gestire i flussi migratori”. Soldi a cui si devono sommare altri 8 milioni di fondi stanziati dalla Commissione nell’ambito dei cosiddetti programmi regionali: più di 20 milioni di euro per “aiuti umanitari”, come si legge nel documento. Ma quali misure saranno concretamente messe in campo con questi soldi pubblici? Assistenza? Mediatori? Presidi sanitari? No: le azioni corrispondono piuttosto all’obiettivo di aumentare i controlli e le registrazioni dei migranti, per consentire a “mezzi Frontex alternativi” di presenziare sul territorio macedone (dal momento che ad oggi non è consentito l’avvio di operazioni Frontex in Macedonia, paese non membro UE), e “per permettere il rapido rimpatrio di chi non ha il diritto di stare in Europa”.
Le misure adottate da Bruxelles non sembrano, comunque, aver esorcizzato il pericolo di azioni avviate singolarmente o, come in questo caso, in gruppo: la coalizione riunitasi a Praga sembra infatti intenzionata a portare avanti la costruzione del muro, mettendo di fatto alle strette l’Europa; in particolare la Grecia, chiusa tra il blocco dei paesi dell’est e le richieste europee.
Un muro al valico del Brennero
La barriera di cui si minaccia la costruzione non è purtroppo l’unica in Europa, e ai troppi muri già presenti se ne andrà a sommare un altro: l’Austria ha annunciato l’installazione di una recinzione al valico del Brennero, al confine con l’Italia. Prevista anche una corsia dedicata alla registrazione dei migranti. “L’Austria non può gestire da sola l’emergenza migranti, né possono farlo quattro o cinque Paesi: o lo facciamo insieme nell’Unione europea, o chi ha diritto all’asilo non potrà più ottenerlo”, ha dichiarato pochi giorni fa il cancelliere austriaco Werner Faymann, durante un colloquio con il premier italiano Matteo Renzi a Palazzo Chigi.
Un approccio comune: è quello che tutti i paesi membri sollecitano nelle sedi europee, è quello che le istituzioni europee continuano a chiedere. Ma, alla resa dei conti, la verità è lampante: dei 160mila migranti che i paesi europei avrebbero dovuto accogliere da Italia e Grecia secondo quanto deciso nei vari summit europei, all’8 febbraio 2016 risultano partite solo 279 persone da Roma e 218 da Atene. Il sistema di ricollocamento dei profughi sul territorio europeo, deciso dai paesi membri, non è mai stato attivato realmente. E gli sforzi, soprattutto economici, dell’Unione vanno nella direzione contraria all’accoglienza, essendo in realtà tutti tesi al mantenimento dei migranti fuori dai confini europei.
Serena Chiodo