“Non è mafia, ma è il modello che ci governa ovunque, è il malcostume di questo paese“. Lo ha affermato, soltanto pochi giorni fa, l’avvocato Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi, nel corso dell’arringa difensiva del processo su ‘Mafia Capitale‘ in Cassazione. L’avvocato ha cercato di dimostrare che si tratterebbe di “fenomeni comuni che pervadono talmente il nostro paese che se non sono mafia da altre parti non lo possono essere nemmeno in questo caso“.
Poi, ieri sera, la notizia della sentenza. La procura generale della Suprema Corte aveva chiesto la conferma delle condanne di Appello, che riconobbero per Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e i loro collaboratori le accuse di aggravante mafiosa ex articolo 416 bis. Ma il verdetto è stato diverso. Secondo la sesta sezione penale della Corte di Cassazione “Mondo di mezzo” non fu “Mafia Capitale”. La Suprema Corte lo ha deciso, ribaltando il verdetto d’Appello, stabilendo cosi che l’organizzazione a delinquere capeggiata dall’ex Nar Massimo Carminati, e da Salvatore Buzzi, ex presidente della cooperativa 29 giugno, non è stata “un’associazione di stampo mafioso”, ma “un’associazione a delinquere semplice”.
La conseguenza immediata è che la pena andrà ricalcolata (alla luce della declassazione del reato in associazione a delinquere semplice) e ci sarà un nuovo processo d’Appello, davanti a una sezione diversa dalla precedente che aveva invece emesso la condanna. 17 dei 32 imputati erano stati condannati a vario titolo “per mafia” (per associazione a delinquere di stampo mafioso, o con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno). Tra questi, oltre a Carminati e a Buzzi (condannati rispettivamente a 14 anni e 6 mesi e a 18 anni e quattro mesi), anche Luca Gramazio, ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio (8 anni e 8 mesi), e Franco Panzironi, ex ad dell’Ama (8 anni e 4 mesi).
Ieri, la Corte di Cassazione ha assolto Buzzi da due delle accuse contestategli, di turbativa d’asta e corruzione, mentre per Carminati è caduta anche l’accusa di intestazione fittizia di beni.
La sentenza mostra, tuttavia, profili contraddittori: ammette l’esistenza di due associazioni criminali, ma le ritiene “semplici”, e non “mafiose”; condanna gli imputati a rifondere le associazioni, anche quelle antimafia, costituitesi parte civile, sebbene affermi che non si tratti di associazione mafiosa. Ma il nodo giuridico è più profondo ed è legato al fatto che il reato del 416 bis contestato non riesce più, ad oggi, a contenere le mille sfaccettature delle mafie moderne.
L’inchiesta di “Mafia Capitale” era stata oggetto di un capitolo di un dossier pubblicato da Lunaria (Il mondo di dentro. Il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati a Roma) nel novembre 2016, a distanza di due anni dai primi arresti e della pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare relative all’indagine “Mondo di mezzo”. All’epoca, l’inchiesta raccontava un sistema di potere e di controllo economico della Capitale (e non solo) occulto e inquietante per la sua trasversalità e pervasività. I giudici non a caso lo avevano definito “un sistema reticolare”, esplicitando molto bene che l’utilizzo improprio delle risorse pubbliche aveva oltrepassato a Roma qualsiasi confine politico, mettendo in relazione tra loro rappresentanti politici, amministratori, manager ed esponenti della malavita.
Nel dossier, sebbene pubblicato ancora con le indagini in corso, facevamo rilevare che l’effetto immediato di quelle ordinanze era stato quello di dare un ulteriore colpo alla già scarsa legittimazione delle politiche pubbliche di accoglienza. Il che ha rappresentato un gravissimo danno non solo per la credibilità delle nostre istituzioni, ma soprattutto per le persone che hanno diritto di chiedere protezione e di essere accolte nel nostro paese.
“Il tema dei costi economici che lo stato deve sostenere per accogliere le persone che chiedono protezione nel nostro Paese era già presente in modo ossessivo nel dibattito pubblico ben prima che i riflettori si accendessero sulle vicende legate a Mafia Capitale, e continua ad esserlo oggi. Sui giornali e nelle trasmissioni televisive di grande audience scorrono fiumi di parole dedicate a questo argomento, per lo più con un taglio sensazionalistico, spesso strumentale. L’attenzione è concentrata sulla quantità di risorse pubbliche investite, molto meno si parla di come sono impiegate, della qualità dei servizi prestati, delle condizioni di vita assicurate ai richiedenti asilo che sono ospitati nei centri di accoglienza”, scrivevamo nel 2016, e questi restano argomenti molto attuali.
L’intreccio perverso tra politica, criminalità e affari che la Procura di Roma aveva messo in luce con l’inchiesta “Mondo di mezzo”, ha di fatto superato di gran lunga quanto in molti e da tempo avevano cercato di denunciare restando del tutto inascoltati. Lunaria, insieme a molti altri, aveva sottolineato in più occasioni, l’esistenza di un problema che riguarda la gestione dell’accoglienza dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati, così come dei cosiddetti “campi nomadi”, non solo nella Capitale.
Nel 2016, quando abbiamo tentato di analizzare quanto stava succedendo al sistema di accoglienza, evidenziavamo anche la cronicizzazione di quello “stato di emergenza permanente”, che ha poi portato all’improvvisazione degli interventi e ha favorito l’ingresso nella rete di accoglienza di soggetti privi delle necessarie competenze, ma molto interessati a entrare in nuove aree di intervento redditizie. E ancora oggi, è proprio l’approccio e la logica emergenziale di per sé a favorire la normalizzazione del ricorso a procedure straordinarie nell’affidamento dei servizi di accoglienza, moltiplicando i rischi di contaminazione del sistema da parte di soggetti e interessi criminali.
Al di là degli esiti giuridici della vicenda romana, la gravità di quanto era stato contestato, avrebbe dovuto costituire il presupposto per adottare i necessari provvedimenti, sia da parte dell’amministrazione comunale che da parte del ministero dell’Interno, per riformare profondamente il modello di accoglienza della Capitale e abbandonare in modo definitivo il modello dei grandi centri.
La storia ha preso una direzione diversa.
Da un lato l’accoglienza emergenziale e i troppi casi di cattiva gestione hanno prestato il fianco a chi ha voluto farne un argomento vincente per il suo successo politico. Dall’altro, con i provvedimenti del Governo Conte 1, il sistema di accoglienza è stato profondamente snaturato. A pagarne le spese i richiedenti asilo (confinati nei CAS gestiti dalle Prefetture), i titolari di protezione umanitaria (espulsi dal sistema), gli enti gestori virtuosi (sfavoriti dal sistema di finanziamento dei servizi così come modificato dal nuovo schema di capitolato di appalto dei centri gestiti dalle prefetture) e gli operatori (migliaia quelli che hanno perso il lavoro). Anche per questo l’appello lanciato alla campagna Ioaccolgo (firmate qui), chiede l’abolizione dei cosiddetti decreti sicurezza adottati dal Governo Conte 1 e di reintrodurre il diritto all’inserimento nello SPRAR dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione umanitaria, rilanciando lo SPRAR come sistema unico di accoglienza pubblico.
Il Mondo di mezzo non fu mafia, ma fu sicuramente uno degli esempi più perversi di “malaccoglienza”. La sentenza di ieri non cancella l’esigenza di ripensare profondamente un modello che, soprattutto nelle grandi città, vede ancora la presenza di grandi strutture e la concentrazione degli appalti nelle mani dei soggetti più forti, oggi più che mai favoriti dalla riduzione dei costi medi di accoglienza previsti nel nuovo schema di capitolato. Grandi numeri e grandi enti, sono infatti un’ottima premessa per garantire una accoglienza pessima, esposta ad abusi e ad illeciti.